Giochi di tende
disegna il vento
sulle pareti
gioiosamente
e bioccoli porta
di odore di tiglio
mentre racconta
la primavera.
Ora il mio cielo
è in questa stanza
e la speranza
una dolce chimera.
Giochi di tende
disegna il vento
sulle pareti
gioiosamente
e bioccoli porta
di odore di tiglio
mentre racconta
la primavera.
Ora il mio cielo
è in questa stanza
e la speranza
una dolce chimera.
Diciamocela tutta
senza far rumore:
Ho una tal pura
che mi scoppia il cuore.
Non ho più voglia
di darmi la baia
fingendomi a un tempo
una brava massaia
che impasta la pizza
e tira la pasta
e poeta ottimista
che canta l’amore.
Sono invece
una bambola vecchia
di celluloide
tutta ammaccata.
Ho la testa pesante
e lo sguardo fissato
per sempre su un punto
da un’ incapace
manata di stucco,
il mio meccanismo
per muovere gli occhi
essendosi rotto…
E la speranza,
falena d’amianto,
svolazza lontano
dal campo visivo
di un rudere umano.
Sono tornata qui con la mente,
paese mio che m’hai tradito
e distrutto e vanificato.
Qui, dove un tempo
respirava col tuo ventre teso
l’ombelico del mondo,
proprio il centro perfetto,
dell’origine del tempo,
mio e di tutto il resto.
Sì, poiché più non ti sento
come il meglio
di ciò che chiamo eterno,
né ti desidero, né ti amo,
né più vorrei ritornare,
son venuta a raschiare
dalla grigia roccia degli alpini,
che fu un tempo la cicatrice
del divenire,
con le unghie dell’ansia
fra i tuoi licheni crostosi,
per ritrovare qualcosa,
un frammento di cielo caduto,
lo smeraldo in una goccia
di rugiada, una speranza
almeno, per ricominciare.
Colpa di chi, ì, ì
se sento quest’eco,
se penso a un bel sogno?
Volevo soltanto
una pausa ai miei giorni
e poi ritornare,
con gli occhi di mare
e la pelle dorata,
già pronta a espiare.
E adesso non so
se vorrò più partire,
gravata nel cuore
dai vostri presagi,
la schiena già curva
di danni e di anni
e le vostre radici
a farmi inciampare
sul sentiero del dubbio,
tortuoso e straniero.
Grazie, ma grazie,
amici solerti,
per cui la speranza
è fonte di danno!
Affidatemi dunque
a medici esperti
con l’autoptico ghigno
già chino sul cancro
dell’estremo sconforto
di chi è già morto dentro!
Nota: L’immagine che ho scelto per illustrare questa mia poesia è un acquerello di Riccardo Scarpellini, che mi è sembrato particolarmente adatto ad esprimere lo sgomento di un’ anima tormentata.
Tiglio di città, se non ci fossi tu…
Abbarbicato alla speranza
come me, a suggere una vita
che non c’è nel nero asfalto
di questa triste umanità…
Se non ci fossi tu, come farei,
senza guardare in strada
verso l’angolo del chiosco
dei giornali, a capire dall’odore,
che si insinua dolce nelle nari,
che giugno avanza, pur nel grigio
cielo di giorni sempre uguali
e che l’estate s’annuncia
nella tua chioma fitta di fiori?
Nota: Con grande simpatia dedico questa poesia all’amica Ale Marcotti, mentre vi propongo di leggere questo suo bellissimo articolo “Come una maglia prestata” in cui ho rilevato alcune affinità col mio scritto, relative alla suggestione “visiva” dell’olfatto.
Quando la sera ormai
scioglie i miei nodi in pianto,
credendo di curarmi
e non lo fa, io piango.
Forse sarà il mio fianco
a darmi tanta pena,
come chi sta gridando
per la sua libertà.
Lontana è la speranza
quando, concluso il giorno,
nulla è mutato ancora,
con le catene addosso
e il sole se ne va…
Pandemia
Endemicamente fiorisce
questa malinconia dolorosa.
Quasi bella, sboccia come una rosa
da radici di neve e sangue e spine,
dovunque tu voglia,
anche ai margini di una rotatoria.
Ed è contagiosa. Si sparge
con questi sospiri bronchiali,
alveolari, ali di pensieri, e vola
sotto forma di spora. O samara,
leggera come fosse primavera.
Appassisce un anno intero
nella mente, nel cuore.
S’ arrossa la congiuntiva,
essudando rimpianto, paura,
attesa e speranza, forse,
di vita futura migliore
da quel piccolo foro ai lati
dell’occhio caruncolare,
rosa rossa del male.
Le lacrime sono il vettore.
E diventa pandemia questo lutto
cocente da fine imminente
di un anno di vita, la nostra,
condotto assai mediocremente.
Infetti
Noi siamo umorali,
leggermente lebbrosi
e un po’ contagiosi.
Per buoni motivi,
che noi comprendiamo,
parenti ed amici
si mostrano schivi.
Così siamo soli,
ma, pieni d’amore,
a tutti auguriamo:
“Buon anno, brindiamo!”
La rotatoria
Alla rotatoria c’è un posto
dove andremo a mangiare
e, se tu vorrai, resteremo a dormire.
Non è che ti chieda di fare all’amore,
soltanto brindare, mangiare, gioire.
Se poi tutto questo ti farà innamorare,
allora saprò come farti godere.
Sarà il buon inizio di una storia importante,
oppure la fine di un anno normale.
A tutti gli amici che mi seguono un sincero ringraziamento per essermi stati sempre così vicini e avermi dato con il loro sostegno la voglia e l’entusiasmo necessari per condividere qui pensieri e emozioni. Auguro a loro e a chiunque passi di qui un sereno anno nuovo in cui possano realizzare le proprie speranze, i sogni segreti, le loro aspirazioni.
Che un figlio compia quarant’anni
sembra impossibile a una madre,
che si vede ancora intenta ad allattare.
Gli sorride quando passa a salutarla
e si stringe nelle spalle un po’ incurvate
per non sentire tutta la sua fretta
e la sua necessità di andare.
Gli legge gli occhi belli e troppo stanchi
e lo vorrebbe solo consolare
per tutte le promesse che gli ha fatto
quando lo teneva in braccio
per farlo addormentare,
e che la vita non volle mantenere.
E non gli annusa il collo,
come quando era bambino,
mentre si chiede dentro il cuore
se riconoscerebbe ancora al buio
quel suo grande cucciolo sbarbato
profumato, cortese ed elegante
che le illumina la casa quando arriva
e quando se ne va le lascia la speranza
di vederlo ancora ritornare.
Diremo insieme: Ci fu un maggio freddo
in quella primavera, rammenti che anno era?
Io, che non sono brava con le date,
sospirerò per dire: Tanto è già passata!
E mi ricorderò, rabbrividendo d’empatia,
quanto fu tosta, al tempo, la mia vita
e non da meno fu la tua. Ne parleremo
col sorrisetto saggio e più leggero,
sorvolando le paludi del passato
come farfalle da poco sbozzolate
tu, con le tue ali grandi e colorate,
i tuoi arcobaleni di speranza e attesa,
io sarò un sfinge farinosa e scura,
ma miracolosamente trasformata
da commediante con il teschio in mano
in creatura alata con il teschio addosso,
sempre un po’ cupa, però rinata al volo
e sempre pronta a divorare miele,
grazie a te, alle tue parole d’oro!
Graziosa foschia
di una terrazza a tasca
che cerca luce
fra le tegole smosse,
emblema di speranza,
il nord che non si arrende…
Amami adesso,
in quest’alba di gesso
che trattiene la notte
sull’ali cinerine,
amami, mio vecchio,
sul letto claustrale
che geme astinenza
dalle durissime molle,
rinnova le nozze
di Filemone e Bauci
nell’infausta pianura
dei giorni più freddi…
È un hotel di passaggio,
un’ incrocio di strade,
il tempo, l’amore,
la meta, l’andare…
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