Rottami di rame dispersi nel cielo
arpeggiano suoni aciduli,
vibrazioni di stelle
friniscono.
Pendono sogni impiccati
da forche fittili,
una luna di Vincent
si sgretola
in cerchi concentrici,
Il cuore velato di traumi
si placa nel nero.
Rottami di rame dispersi nel cielo
arpeggiano suoni aciduli,
vibrazioni di stelle
friniscono.
Pendono sogni impiccati
da forche fittili,
una luna di Vincent
si sgretola
in cerchi concentrici,
Il cuore velato di traumi
si placa nel nero.
Nella penombra guardo
il letto addormentato.
Conserva nelle pieghe
sue disfatte
ogni notte un pochino
di respiro,
quando affrettava
i battiti il mio cuore,
mentre la bocca
ripeteva “ancora!”
Ah, l’amore,
mai sentito freddo
In quei momenti…
E adesso cose opposte,
sofferenti, ed il rumore
del concentratore,
l’ossigeno che arriva,
per fortuna, e tu, che,
come sempre,
“mi” respiri…
Auguri speciali e tutta la mia gratitudine agli addetti alla consegna dell’ossigeno (io ne conosco due, per motivi, io credo, di turnazione,) che ogni Venerdì mattina mi portano la bombola, una finestra aperta sull’aria fresca di una vita indubbiamente migliore. Non c’è sensazione più bella del respiro che “funziona” e questo l’ho capito solo quando mi ha tradito. E lo fanno con gentilezza e col sorriso. Buon Anno a loro e a tutti quelli che passano di qua.
Un insensato mondo
di membra esplose,
e chi più è forte
più ne sbudella…
Questo è il Natale
ai nostri giorni,
di noi nati stolti
sotto mendace stella.
Auguro io soltanto
di avere il cuore calmo,
a tutti quanti, non freddo,
ho detto calmo,
per non avere fatto
entrare il male.
Auguro Buone Feste a tutti quelli che passano di qua, sempre o saltuariamente, ringraziandoli per il tempo che mi dedicano leggendomi, un grazie particolare a quelli che si fermano un po’ di più e condividono esperienze e attimi di vita. Auguro a tutti serenità e pace nel cuore, auguro a tutti di provare la forza dell’amore.
Tristissima di povertà non sonora
-non mi lamento, non piango, non racconto-
mi sfogo sull’eczema di un braccio e poi mi fermo.
perché il sangue romperebbe il segreto.
E mi vedo sul greto del torrente di Albenga,
quando ancora non sapevo niente di niente
e per questo speravo e ridevo ed ero il re
del mio piccolo mondo, che confinava col mai
e col sempre, per quanto vicina io ero alla nascita
e lontana, lontana dalla mia morte. Eppure
qualcosa intuivo, quando la sera vorace
si mangiava la mamma, se nessuno accendeva
la luce di casa e il suo bel viso un po’ triste
splendeva nel bagliore inquietante dei lampi
e, in fondo in fondo, la Gallinara era nera,
o quando la mite oca bianca delle rive del Centa,
senza volere, mi feriva con la lingua coperta di denti
se con la piccola mano le davo il mangiare
e io ci rimanevo molto male… Perché mi morde?
Così adesso sono tale e quale a quel tempo
e, da dentro il cuore, esigerei esser nutrita
d’ amore e mi vergogno, lo so che non va bene,
ma vorrei averne almeno quanto ne ho dato.
Pareggiare, in questa maremma amara di ora,
quasi tutti i conti e, posta la mummia semiviva,
l’indegna quiete in cui mi trovo bendata adesso,
sul letto di tutte le sere, morire finalmente d’amore.
Clamoroso, mi sto rompendo!
Sento quel bang nel cuore,
poi non mi muovo più per ore.
Sono un guerriero finito,
con una spada nel fianco,
non vedo né pace né gioia,
né, tantomeno, ritorno.
I miei alleati più fidi,
guerriglieri giorno per giorno,
cioè i miei desideri,
anche quelli cretini,
sono stati glassati
da mix micidiali di statine
e voracemente inalati
da ossigenazioni forzate.
Così ora respiro e non vivo,
con un albatros morto
che mi pende dal collo
e questo è quanto.
Mi son comprata
un cappottino azzurro
perché d’inverno Il cielo è grigio,
ma questa notte mi domando
se avrò il piacere di indossarlo
e cerco di avocare il mio respiro
a me, perché mi tenga in vita
e lasci strada ai passi veri
e non soltanto a sogni solitari.
Intanto il vento piange e urla,
forse si strappa gli ultimi capelli
e il gorgogliatore parla strano
e a me, pezzo per pezzo,
parte via malato il cuore
e chi mi dorme accanto
è corpo caldo e assai lontano.
Mi vestirò quel giorno
con vesti sottili,
drappeggiati amanti
nelle mie carni, mani sonore
di violoncello.
E per volare,
sul battito forte del cuore,
fughe rincorse di organo
in volte di chiesa.
Sarò la sposa del vento
e dal tempo, cantando anch’io,
me ne uscirò leggera.
Guarda com’è pesante
questo cielo di pietra!
Forti colonne
a sostenerlo
prima del tuffo
nel mare tormento.
Questo, mio caro,
è il cielo del cuore,
un cielo finito,
come un telo gettato
fra la mia Finis Terrae
ed il tempo che resta.
Piccolo souvenir ospedaliero
che mi si accese
al tardo petto
con baci fondi
da vero amante
-e mi spiava il cuore
e io gli giacqui offerta
in nudità tremante,
ansimando verità
dal respiro incostante-
lui la vide tutta
con il suo occhiuzzo nero
la mia verginità dolente
mentre la lingua secca
mi brancolava in bocca
e l’infermiera sorridendo
un po’ mi consolava….
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