Sono livida
di lividi circolari,
i succhiotti della morte
sul mio inerme cuore.
Sulle ferite inferte
dal dolore, solo lamie,
divoranti immonde
e nessuno a medicare
il mio inesorabile male.
Sono livida
di lividi circolari,
i succhiotti della morte
sul mio inerme cuore.
Sulle ferite inferte
dal dolore, solo lamie,
divoranti immonde
e nessuno a medicare
il mio inesorabile male.
Sto creando una mousse
vernale anticipata
primavera destrutturata
un po’ di sole e petali di rosa
odor di fieno e stalla afosa
connubi d’amore
e note del canto alto
di un asino pazzo al pozzo
che raglia alla luna rossa
e argento rotto di onde di mare,
tutto tritato da spalmare
sul pane di sorgo nero
di questo inverno spettrale.
Tu dirai: “Che novità!”
E non hai torto, ragazzo.
Stasera sono triste e lo confesso,
mi sia è aggrappata al cuore
questa luce artificiale rossa
che tenta di scaldarmi il malumore
con le inventate stelle dei faretti
che artigliano le tende polverose
coi riflessi adunchi ad attaccarsi
al cielo nero, fuori, in qualche modo.
Niente mi allevia dall’ondata
di lecita paura di morire sola
in questo mondo stolto e sciocco.
E l’ambulanza intanto passa
e grida: “State attenti, non aprite
alla morte, la notte di Ognissanti!
State a casa per Halloween, quest’anno,
bevete del buon vino con gli amanti
e poi di corsa a letto a far l’amore!”
voragini di passato spalancate
sotto a un presente inconsistente,
pozzo d’acqua lunare
in cui la vanità del giorno
si specchia prima di cadere.
Verità da camera da letto,
il monte ginocchio appeso
allo specchio,
il soffritto del pranzo che stagna
nel riflesso.
Un barbecue di illusioni rosolato
da un vecchio.
Un amore d’ottobre, pisolando
parecchio,
si scalda al meriggio di sole e solecchio.
Le mani ora solo intrecciate
in amplesso
di efelidi, artrosi. E il suono all’orecchio
di antiche promesse, mantenute
all’eccesso.
Ancora una volta è finta
la pausa dalla vita.
O è finita la vita,
fino a venerdì sera,
quando lavi in silenzio
la tua anima nera
e riscopri la gioia
di goderti la noia?
Un mattutino
cantato dal vento
che porta da occaso
rotolii di campane
mentre io giaccio ancora
in difetto di sonno
con la testa percorsa
da un bel trillo di squilla,
il registro ad ancia
di un gran mal di capo,
solennità d’organo
del mio corpo sdraiato
e mi chiedo nel buio
come sia questo giorno,
se sia il sole a segnarlo,
di speranze tardive
infiorando le ore
di un ottobre piovoso,
o se invece la pioggia,
trattenuta nel grembo
ed alfin partorita,
darà vita ai miei mostri
e al veleno dei funghi
sotto i piedi sgualciti
dall’andare per boschi…
Poi un giorno
mi si è rotto il cuore,
quello destro,
dice il mio dottore.
Io sento solo la fatica
persino di sognare.
E poi c’è quella molla,
troppo lunga
nel passo delle spire,
che non si è più riavvolta
a forza di caricare.
Io soltanto la vedo
e la posso toccare.
Sapessi come pende
verso il ventre
da uno squarcio
immateriale,
chirurgicamente inferto
dalla pietà e dall’amore
ogni dannata volta
che ti vedo soffrire!
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