Una mano di grigio,
una vernice invecchiata,
un craquelè sull’estate,
ecco quel che resta
di una bella giornata.
Anche il cuore, nel petto,
porta segni di tigna,
lentamente corroso
più che dal dolore
da un’indicibile noia.
Una mano di grigio,
una vernice invecchiata,
un craquelè sull’estate,
ecco quel che resta
di una bella giornata.
Anche il cuore, nel petto,
porta segni di tigna,
lentamente corroso
più che dal dolore
da un’indicibile noia.
Ah, questa eternità che non finisce
e i limiti dei mondo così angusti
per contenere tutto il mio dolore
e la mancata immunità
da questo grande amore
che mi ha spaccato dentro
come un misero animale,
quando tu, mia fragile mortale,
mi sei spirata fra le braccia
e hai spento il sole
ed ogni mia motivazione
a galoppare in lungo e in largo
ere e giorni, eventi e spazi
di questo inutile universo
che suona vuoto di ogni senso
e mi ritorce contro
la mia insensata smania di creare!
Povera Picassa in crash,
perduta identità che si frammenta
rifratta su specchietti in simil vetro,
un occhio quasi spento sul passato
e l’altro sul futuro già in agguato,
il naso come un vomere del senso
ad arare certi odori di ragù
con la voracità della narice destra,
mentre l’altra, la francese, li detesta!
E la bocca, sensuale al davanzale,
fa il sorriso che di solito si fa
fra persone benvolute in società.
Ma dell’anima raminga cosa resta?
Forse l’artrosico arto metamorfosato
da una mano un tempo dolce molle
si protende verso il girovago seno
artigliando dal cuore ancora caldo
il guizzare da ittiosauro di un segreto…
Forse un amore fossile la salverà?
Chi le ridarà la sua unità?
Zittita in me riposa
la voglia assai dolente
di dire cose oscure.
Come una bara muta
nascondo il mio dolore,
con manto di madonna
mi cingo il fianco nudo,
ascesi nel pudore,
il vero non ti svelo,
ti do quello che chiedi:
la grazia di sperare.
E mi restano i nodi,
da sciogliere,
non so se ce la farò,
entro questa vita.
Pettino le chiome
del mio fato
con le dita stanche
ed incontro,
come sempre
ogni mattina,
un tessuto di rasta,
impossibilmente
doloroso
da sbrogliare.
E guardo il sole,
e molte belle cose,
oltre ai ricordi,
al di là del dolore
e mi domando,
fluttuando sospesa
all’arcobaleno interiore,
se davvero vale la pena
di capire
e il cardo dei lanaioli
tarda ancora
a fiorire…
Il vero matrimonio fu celebrato un giorno,
non mi ricordo quando, ma c’era il sole e tanto,
almeno quello dentro. Non mi ricordo dove,
ma certo fu sul mare, quel piccolo paese…
Il tempio, una vetrina, di quelle fatte specchio.
Tu fosti il celebrante, e questo il breve rito,
guardandoci riflessi, dicesti col sorriso:
“Siamo una bella coppia e avremo due bambini.”
Espressi il mio consenso, scandendo loro nomi,
anzi, per il maschietto, lo pronunciammo insieme,
per la bambina, invece, lo dissi solo io.
Poi ci baciammo un poco, scambiandoci il respiro.
Stringendoci la mano, lasciammo quella chiesa,
e intraprendemmo un viaggio che più non è finito.
E vai e vai …
il tuo curvo esitare
sulla soglia ostinata
di un bacio non dato
e che sarà mai?
Nemmeno un ciao.
Io, le mie spalle,
la vestaglia gettata
sull’indisposizione
del mio restare.
Anche questo
è star male.
E che sarà mai?
Tornerai, tornerai!
Io, la serena decadenza
di Venezia, lo splendore
in nudità malate e dolci,
ammantate dalla nebbia
di malinconia orientale,
galleggiando alla deriva
di un naufragio lento
in chiuso mare.
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