Lo spartiacque del giorno
è il corridoio.
Mi alzo presto, la mattina.
Oggi, ora legale.
Vado in cucina, c’è buio,
ma, al di là del lungo crinale,
nel piccolo studio,
già è sorto un bel sole.
Lo spartiacque del giorno
è il corridoio.
Mi alzo presto, la mattina.
Oggi, ora legale.
Vado in cucina, c’è buio,
ma, al di là del lungo crinale,
nel piccolo studio,
già è sorto un bel sole.
Terrazza al quarto piano,
sciorina le sue ali nel vento
un enorme gabbiano
su un tetto poco lontano
sciogliendo in cielo
un roco canto lento.
Poi vola via contento
dopo l’accoppiamento.
La femmina, sorpresa, resta,
nella prima sera pare mesta.
Tetra teatralità del fuori luogo,
oggi è di nuovo primavera,
ma non vale la pena di parlarne,
troppi sono gli occhi che l’inverno
ha chiuso in fretta ed anzitempo
e non ci consola guardare i prati in fiore
pensando ai vuoti sguardi
di chi non li potrà più rivedere…
Chi doveva farlo l’ha fatto:
È andato alla morgue
a lasciare le ossa.
Ora il campo è fiorito
di pallidi crochi,
qua e là qualche fungo,
e in cielo potresti vedere
tanti giovani angeli.
Ecco che piove, infine.
Forse ci farà bene.
Intanto, qua fuori,
il tavolo deserto
offre il suo grembo
al pianto del cielo.
Nudità del dolore,
grande silenzio
di cani, passeri
e poveri umani.
Lontano, col vento
l’urlo grigio del mare…
Oggi, a Castiglioncello,
mi sono seduta al caffè
della piazza, c’era il sole,
niente vento, una metamorfosi
del tempo che germinava viole
nel grembo dell’inverno,
promettendo un marzo caldo
e fecondo. E c’era la mia corte
di passeri affamati, dignitosa,
senza mendicare mi guardava
con tanti occhiuzzi tondi, attenti
e io facevo la mia attesa mossa
seminando briciole a spaglio
con ampio gesto divino,
un paradiso in terra, la manna.
E c’era un piccoletto bruno,
di piuma, diverso dallo stormo,
bello, sano, forte,
ma terribilmente tardo.
E io che fintavo per dargli
un poco di cibo. Finta a destra,
lancio a sinistra. E sono riuscita,
un poco, a sfamarlo, pensando:
Piccolo figlio, troppo mite…
Così, senza gloria,
è incominciato marzo,
in gramaglie di nubi
e lacrime vedovili
e un color grigio cielo,
uno strano celeste
umiliato dal nero,
che non pare un colore,
ma la veste dismessa
di una donna fuggita
sgusciando via nuda,
da una delusione d’amore,
abbandonando sul letto
dell’ultima notte
tutta una vita, un passato,
una storia.
Perfido, perfido sole
che ti sveli così, nella gloria,
dopo un giorno di buio,
primo ed ultimo sole,
vero sangue reale,
che mi ferisci negli occhi
punendo la voglia mortale:
Guardarti senza adorare.
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