Piogge equinoziali elidono
molecole di tempo stagionali.
Che cosa c’è da celebrare?
Non certo dei caduti nei fanghi
della storia, è solamente
un notevole giorno per il sole.
Come uno scalatore in ascesa,
è giunto allo Zenit dell’equatore,
un punto notevole geograficamente
anche per l’astronomo cultore.
Per il resto, non significa niente.
Qui lo dico e qui lo nego.
Perché è un giorno importante,
è così che si avvera il destino.
Il sole si avvita come un tralcio di vite
intorno al suo palo siderale,
finché arriverà a Vega.
E la Terra trascina, che gli corre intorno
girando su se stessa, pazza trottolina.
La terra dunque ascende, ascende
mentre gira intorno alla sua stella
e su se stessa, incurante
del suo gravido ventre umano
che s’affanna. E ci trascina.
Tutto dunque va dove deve andare,
questo è il senso equinoziale,
che è un nonsenso che ci affida
alla terribile necessità di andare.
ovvero ad un unico fato universale.
di tempo così espanso
che ogni minuto dura
un quarto d’ora, un tempo
di scorrimento lento,
come un fiume alla foce,
morte al rallentatore.
Il silenzio ha una connotazione
da esecuzione capitale,
un nodo scorsoio alla gola
senza poter mai parlare.
C’è una calma in giro
senza colori e sentimenti,
un fine estate crepuscolare,
un tramonto senza gloria
né colore, senza voglia
o potere di gridare,
laringectomia sacrificale,
un grigiore interiore
che vetrifica lo sguardo
nella cataratta di chi aspetta
senza poter vedere il mostro
della sua paura.
E adesso cosa faccio?
Dormite tutti in casa,
sdraiati dentro i sogni
coi visi sdolcinati
di grossi cherubini.
Persino il cagnolino,
da quanto è rilassato,
mi pare uno zerbino
senz’ossa e volontà.
E io vorrei, ma tanto,
avere un buon caffè,
e cereali dolci
con il mio latte freddo,
i ponti in carità
per transitare sveglia
dal sonno alla realtà
e sopportare meglio
quello che mi accadrà.
Io amo l’open space,
salvo che in certi giorni,
quando non c’è la sveglia
perché non si lavora
e l’ ospite contento
poltrisce a sazietà…
Ancora una volta
la Luna con Giove
m’incanta.
Un dialogo di dei
che si consuma
srotolando parole
d’oro nel silenzio
siderale, segrete
al nostro orecchio
mortale. Curioso
e lontano,
inadatto a capire.
Pizzica l’aria
un gruppuscolo
di note accordate,
sospinte dal vento,
vorticando.
Come vorrei, o Luna,
entrare in un varco
spaziotemporale,
piccolo come una toppa
di chiave,
un’anomalia musicale.
E perdermi, infine,
unica mortale,
nel vostro mondo
accogliente,
conoscere il tutto
e mai più ritornare,
vedendo, sapendo,
continuando ad amare.
C’era la luna grande, quella notte a Livorno,
era sguaiata, discinta, spettinata
slabbrata sui contorni, come una donna sola
e molto disperata. Si affacciava alla soglia
di un cielo iperstellato e non so chi aspettasse,
ma aspettava.
Io zigzagavo in auto per un pastoso sonno,
in veglia per te, piccolo ladro del mio cuore,
mio cucciolotto da pochi mesi nato,
così malato da sembrare alato, come un angelo
che sta per ritornare là, donde fu mandato.
Così pregai la stella più vicina alla gran madre luna
che le dicesse all’orecchio di aspettare,
non aveva bisogno quanto me di quel tesoro,
garante della mia felicità e della stessa vita
di chi l’aveva accolto nella sua dimora.
Mi ero scelta il mio tempo,
solo un piccolo avanzo,
era il tempo del dopo.
Dopo aver provveduto,
con amore, s’intende,
a ogni mia obbligazione
da pagare alla vita,
avrei fatto quel viaggio,
avrei scritto quel libro
e cercato i parenti,
quelli mai conosciuti,
avrei dato una festa
e ti avrei risposato,
a metà per amore
ed il resto per celia.
Sarei stata a New York
sorvolando le guglie
di quei cieli turriti.
Avrei fatto di tutto,
proprio tutto, ma dopo.
Io ora ci sguazzo,
nel mio dopo che è adesso
e mi sento ingannata,
mentre corrono i giorni,
quelli che non c’è dopo,
quelli che “sono stanca”
“sono stanca e malata!”
Tristi mattine
degli ultimi giorni,
latte e biscotti,
che a me piace tanto,
e questa mia tosse
che lacera dentro.
Intorno, silenzio
e dalla finestra
il rantolo roco
di una città stanca
che si trascina.
Tu ancora dormi,
avvolto nei sogni
e nel bozzolo stretto
del lenzuolo rubato.
Te ne pendi così,
dal tuo gelso illusorio
di speranze e sorrisi
e la strana certezza
che ci sia sempre tempo
per la vita, l’amore,
per il viaggio in Lapponia
e per me che ho paura,
ma che in fondo
sto bene.
Commenti recenti