Sembrano mani
queste alghe palustri,
giochi di bambino
in un bianco lavandino,
baluginando a sera
ricordi e proiezioni
di ombre del passato
a assorbimento lento,
un filtro di memoria
in questo gran silenzio.
Sembrano mani
queste alghe palustri,
giochi di bambino
in un bianco lavandino,
baluginando a sera
ricordi e proiezioni
di ombre del passato
a assorbimento lento,
un filtro di memoria
in questo gran silenzio.
Disdicevole sera
così grave di pioggia
da sembrare una fiera
dilaniata dal parto
su un giaciglio di nembi
ogni ora più neri.
Disdicevole sera
dei miei foschi pensieri
dopo un giorno di diagnosi
e sofismi accademici
di dottori golosi,
come mosche sul miele,
di prelievi venosi.
Disdicevole sera
dei ricordi più dolci
quando il sangue era sangue,
capriole nel cuore,
e l’amore era vita,
ah, l’amore, l’amore…
Una musica da bar
sale al balcone
dolce come
un cielo di cotone.
In fiato caldo spesso
il vento mi possiede il petto,
come un amante pazzo
mi centra
con un pugno ben diretto,
il tempo di dire “ah”
ed è finito tutto…
Pare la sera afosa
di un giugno un po’ lontano
in un tramonto verde e rosa
con un ragazzo strano…
Alla periferia della notte
una sera stanca e delusa
si trascina fra cenci di luce
seminando coi colpi di tosse
la fatica, gli errori, i rimpianti.
Si rannicchia in un angolo buio
anelando soltanto dormire.
Sarà questo, dunque, l’autunno?
Un’eroica agonia senza sogni?
Senza stelle, né luna, né amore?
Volge il giorno alla sera
e l’inesorabile sera
volge alla notte.
Non chiediamoci lo scopo,
né che cosa resta,
di queste nostre ore.
Abbiamo fatto tutto
ciò che l’inestricabile nodo
del destino con il caso
ci ha concesso di fare,
e, finché è durato, è stato reale.
Questa dunque è la vita
che si scontra amara e dura
contro la cortina delle stelle
e il nostro vizio di sognare.
Oh, se sarà bello, più tardi
lasciarci ingannare e sognare
così benignamente stolti
da parerci tutto vero!
Ancora una volta, per illustrare la mia poesia, ho usato una fotografia di Paolo Scarpellini, scegliendola fra quelle che fermano istanti diversi del giorno sulla stessa passerella di legno che corre verso il mare.
Non ho più tempo per niente
e allora faccio festa,
cavalco la mia bestia
selvaggia e guerriera
e respiro la sera
che esce esalata
dalle froge anelanti
della mia cavalcatura
e finalmente io grido
così, per cantare la rabbia
e, perché no, la paura,
che disegna ad oriente
il colore infocato
di un’ alba inesistente.
Invece è già notte
e cola dai tetti liquame
di fogna, fango di sugna,
destino soccombente
di un’umanità morente
che non può proprio niente
contro il vero vincente,
un embrione di vita
con tanto potere generante,
forse meno di un prione,
ma molto più di un regnante…
Ma i fenicotteri
erano già migrati via
dalla laguna,
come i miei dolci sogni
di bambina.
Fu un’estate febbrilmente
astrusa,
imbibita com’era di speranze
a sera,
niente più morbo e tramonti
rosa,
stemperati nel mare come fa
il pittore,
quando il colore muore
con il sole.
Quando la sera ormai
scioglie i miei nodi in pianto,
credendo di curarmi
e non lo fa, io piango.
Forse sarà il mio fianco
a darmi tanta pena,
come chi sta gridando
per la sua libertà.
Lontana è la speranza
quando, concluso il giorno,
nulla è mutato ancora,
con le catene addosso
e il sole se ne va…
Terrazza al quarto piano,
sciorina le sue ali nel vento
un enorme gabbiano
su un tetto poco lontano
sciogliendo in cielo
un roco canto lento.
Poi vola via contento
dopo l’accoppiamento.
La femmina, sorpresa, resta,
nella prima sera pare mesta.
Quando gli alberi diventano neri
e graffiano inquieti il roseo viso della sera
sanguinando di sole morente, ecco, io sono.
Spirito del buon ritorno divento e volo,
volo lontano nel tempo e ti ritrovo.
Per una sera almeno, ecco nasce finalmente
il nostro amore che insieme abbiamo soffocato.
Ucciso, come un bambino mai nato.
E ti sposo. Sontuosamente i miei sedici anni
ti dono. Per sempre, in un altro universo mi dono.
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