Per camminare
ho il mio bastone.
Per correre,
come una spyder rossa,
il deambulatore.
Pensavo di odiarli,
invece molto li amo.
Così sono a posto
e parlo di libertà
col cuore sereno.
Per camminare
ho il mio bastone.
Per correre,
come una spyder rossa,
il deambulatore.
Pensavo di odiarli,
invece molto li amo.
Così sono a posto
e parlo di libertà
col cuore sereno.
Su questo muro giallo,
del viso mio
profilazione intensa.
Più in basso,
il mio bastone.
Pur se mi urge
la poesia nel cuore,
ife di un fungo bianco
mi legano la gola
e annodano il bel canto
che esce gorgogliando
di rantoli bronchiali.
Chi mi ha reso muta?
Forse il cielo grigio denso
o forse questi tempi
che celano i sorrisi e la paura
con l’obbligo di maschere
e distanze, rendendomi
difficile sperare?
Se fossi una dea
creerei il mio mondo
semplicemente
ascendendo.
Arsa all’interno
da un fuoco d’amore
getterei
nel mio crogiolo eterno
pulviscolo stellare.
Surreale silenzio dei camini,
han legato la gola alle campane,
un cielo azzurro terso offerto
al fendente d’ala dei gabbiani.
C’è chi aspetta che il morbo finisca,
che ritorni la colomba in volo
col ramoscello verde al becco
recando nuova pace all’arca.
Ci sono certe ore
che hanno il grigio dentro
pur esplodendo di colore.
Come adesso che incalza
l’inizio del tramonto
e mi dilania il cuore
il sogno mio tradito
di correre sul mare.
E dopo sarà tardi,
come succede sempre,
da molti, troppi giorni
e riderà di me la luna
correndo sulla sabbia,
spargendo inutilmente
un manto di splendore.
Non mi marcisce il cuore
in questa fredda attesa.
Come nella torbiera,
qualcosa è fossile,
qualcosa nasce,
qualcosa muore…
Quando sognavo l’Islanda,
ispirata dal ghiaccio e dal fuoco,
ero soprano e usignolo
ricamando spartiti di note
così alte da far sanguinare
i più puri, rompendogli il cuore,
morire felici, rinascere ancora…
Ma ora, che il nulla ci incalza,
oscurando ogni giorno il futuro,
ora, che Dio c’è lontano,
e la mente fatica a adorarlo
e a crederlo il buono fra i buoni,
or che il ruscello è palude
e marciscono fiori di neve
sotto i passi incerti, smarriti
di un primavera di tisi,
ora che le messi future,
abbattute a colpi di falce
reclinano i capi delusi,
lontani da padre e da madre,
rapinati di ciò che era certo,
giovinezza, vita, bellezza,
senza conoscere amore
e papaveri e risa e l’estate,
ora non canto, non spero, non rido,
soltanto aspetto e sospiro.
Oh, com’è lontana l’Islanda,
com’è lontano il bel canto,
or che non posso sognare!
Commenti recenti