Preso nella rete il cielo
si dibatte sanguinando
il suo tramonto rosso a fiotti,
come noi, amore mio, verso sera…
Preso nella rete il cielo
si dibatte sanguinando
il suo tramonto rosso a fiotti,
come noi, amore mio, verso sera…
Apparecchieremo
il tavolo grande
faremo festa,
amore, ogni giorno,
tintinneranno
le nostre stoviglie
sfiorando il cristallo
dei calici fini.
Noi rideremo
del tempo che passa,
consumeremo
ogni nostro momento
e tutto l’oro, tutto l’argento
e tutto il sole,
dall’alba al tramonto.
Tutte le speranze
trattenute dentro
per tanto di quel tempo
come una gravidanza
d’elefante lento
che ti pare di scoppiare
e così tanta vita in corpo
che la piccola esca
di un giorno di sole
la potrebbe brillare
e la pazienza di un saggio
invecchiato in un tempio
per poter aspettare.
che giunga il momento…
E vai e vai …
il tuo curvo esitare
sulla soglia ostinata
di un bacio non dato
e che sarà mai?
Nemmeno un ciao.
Io, le mie spalle,
la vestaglia gettata
sull’indisposizione
del mio restare.
Anche questo
è star male.
E che sarà mai?
Tornerai, tornerai!
Mi dispongo a ritrarti
mi arrabatto arrangiando
le dita in tormento.
Perché io son così:
scolpisco la carta
con il mio movimento.
Trascinando nel bianco
il nero inchiostro, lo diluisco
e, mescolando, piallo il livello
fino a quando ne sorge
qualcosa di bello:
uno zigomo stanco
il tuo occhio da rospo,
ed il naso rapace
alle soglie del fosco
sorriso tuo amaro
con le pieghe di scuro
che ci ghigna sul grugno
quanto un tempo hai sofferto.
Vorrei parlare di te
quando dormi
e lo farò stamattina
presto, adesso,
quando l’equinozio
di questa primavera
e la rorida aurora
cospargono di rosa
e terra e cielo.
Tu dormi beatamente
con ostinazione d’infante
in totale abbandono
all’estasi del sogno
e se non è una qualità
questa di te, che io canto
e addirittura adoro,
almeno è una piccola cosa
che crea la tenerezza
e ricopre l’amore nostro
di petali di pesco.
Suonano di ossa stanche
i miei già lenti passi nella vita
e più la primavera affanna i rami
di fiori gemme e nidi nuovi
e inventa cieli azzurri e voli
più io mi sento estranea e grave
e più si fa vicino il bianco giorno
in cui mi donerò all’inverno
e gli sarò compagna in gelide contrade.
Non so che anno era…
Comprai una candela,
che era troppo bella
per darla al suo destino
e poi lei mi parlava
del luogo dove nacque,
che era là sul lago
dove lasciammo i sogni
appesi come agrumi
in calde limonaie
fra roridi profumi.
Ma è tempo di cambiare,
così dentro a un cassetto
di inutili tesori
che non porterò via
oggi l’ho ritrovata.
Graziata dall’oblio,
le ho dato breve vita:
a morte l’ho incendiata.
Come un fiore farfalla
avrei voluto un tempo
volare. Lieve la mente
e la voglia di andare,
strappare il mio stelo
sanguinar conseguenze,
senza mai temere,
rossa di ali inventate,
cielo che m’appartiene,
che poi sarebbe vento
per la portanza alare.
Ma stamattina, ormai,
io mi sento più vecchia,
come un’arpia civetta
che non ha mai volato
e grigia polverosa
di un sonno malato
e ho tanto di quel freddo
in ogni parte addosso
che brucerei nel fuoco
adesso, col cappotto
e quel che indosso sotto.
Rigurgita il verde già pregno
del breve stagno alluvionale…
Sento le prime rane a sera
già pazze d’amore cantare,
eppure marzo congela
gli orgiastici amplessi
nel rigore invernale.
Sul mio tavolo ordinato
come un chiaro altare
solo una mezza minerale,
acqua chiara e pura,
ma già morta di paura,
tranquillità emozionale.
Ah, poter tornare a bere
(e nuotare e gracidare)
là dove scorreva lenta
la mia torbidità vitale!
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