Tristissima di povertà non sonora
-non mi lamento, non piango, non racconto-
mi sfogo sull’eczema di un braccio e poi mi fermo.
perché il sangue romperebbe il segreto.
E mi vedo sul greto del torrente di Albenga,
quando ancora non sapevo niente di niente
e per questo speravo e ridevo ed ero il re
del mio piccolo mondo, che confinava col mai
e col sempre, per quanto vicina io ero alla nascita
e lontana, lontana dalla mia morte. Eppure
qualcosa intuivo, quando la sera vorace
si mangiava la mamma, se nessuno accendeva
la luce di casa e il suo bel viso un po’ triste
splendeva nel bagliore inquietante dei lampi
e, in fondo in fondo, la Gallinara era nera,
o quando la mite oca bianca delle rive del Centa,
senza volere, mi feriva con la lingua coperta di denti
se con la piccola mano le davo il mangiare
e io ci rimanevo molto male… Perché mi morde?
Così adesso sono tale e quale a quel tempo
e, da dentro il cuore, esigerei esser nutrita
d’ amore e mi vergogno, lo so che non va bene,
ma vorrei averne almeno quanto ne ho dato.
Pareggiare, in questa maremma amara di ora,
quasi tutti i conti e, posta la mummia semiviva,
l’indegna quiete in cui mi trovo bendata adesso,
sul letto di tutte le sere, morire finalmente d’amore.
E poi venne il tempo,
l’amarissimo tempo
dove ogni speranza
fu smentita dal vero.
Venne meno la forza
di sognare scenari
di salute e vittoria
ed amori rinati.
Restò cenere fredda
nel camino del cuore
e nemmeno la brace
per accendere un fuoco…
Fioche larve erravamo
in un mondo sconfitto
e la morte sapeva
che ero pronta per lei.
Finestra delle quattro e trentadue
con quell’albero grosso
e la mia voglia di dormire,
silenzio ospedaliero
e luce artificiale,
l’artiglio della morte
addormentato,
l’ossigeno che va
per l’albeggiare…
Il sole sembrava una cisti
che ispessiva un cielo coperto.
Infatti, è esploso sul tardi,
debordando a causa del vento
e ha sporcato qua e là sopra i tetti
precedendo di poco il tramonto.
Ascoltavo la morte tossire,
incapace di dirmi fra quanto
e tornavo fra i miseri cenci
di una vita pezzente e paziente
a guardare dai vetri sporchetti
quella sfera armillare in gramaglie
dove ruota il dolore soltanto.
Partoriti da lembi di cielo
i bianchi ponti fra eterno e orizzonte,
cosicché questa terra scompare.
Sta morendo il mio ventre, qua sotto,
di strazi tardivi e dolori…
Da vero viandante, mi accampo
ad aspettare che passi il mio giorno,
come un acquerello all’inglese
di rovine e passato splendori
e le mani impietose d’autore
che tirano un telo sul mondo,
una notte o la morte, non so.
Io aspetto, tremando, un Risveglio.
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@riccardino45
Sommario
Allora bisogna accorgersi di te,
per quel tuo voler essere pungente.
E come sospira la tua bocca densa
di nebbia, o forse fiato di condensa,
masticando le grida di sirene
che mugghiano dal mare alle polene!
Ci dorme dentro tutto quell’amore
che ci accaldava le membra,
l’altra estate, fino alle soglie dell’autunno.
E ora ritroviamo sul cuscino
più cha altro una gran consolazione
per essere vicini e caldi e insieme,
io e il mio amato unico bene
e, questo lo speriamo, lontani dalla morte.
Ti apro le finestre per esserti accogliente
e mi ti diluisci dentro, ma fai bene,
al fondo dei polmoni inariditi,
gustando io il tuo ghiaccio scricchiolante,
il tiepido sorriso del mio amante
e mite, la speranza del futuro,
cantata dalla bocca del camino.
Eccomi qua,
mia adorata ragazza,
ecco qui la tua amica
che è venuta per te.
Che poi io sarei te,
duplicata per caso,
forse nata allo specchio,
solamente cercando
un sollievo allo spleen.
E chi meglio di un clone,
privo anche di corpo,
se non quello prodotto
da un pensiero sottile,
potrà mai consolarti,
chi migliore di me?
Vedo tutto e so tutto,
so le rughe sul viso,
i dolori alla schiena,
lo sbiancarsi segreto
dei verdissimi occhi,
il gerontoxon vile,
che soltanto la morte
velerà di pietà,
abbassando un amico
le tue palpebre meste,
fisse allora per sempre
sulla tua eternità.
So la voglia d’amore
che ti brucia in segreto,
mentre il corpo in declino
si vergogna di te.
So le corse che sogni
le tue mete proibite,
la tua fame di tempo,
che nessun ti darà,
ma non trovo parole
per ridarti il sorriso…
Forse puoi regredire
nel tuo avatar falso,
quel profilo che avevi
molti, troppi anni fa
e, credendoti bella,
far le cose che sogni,
finché fiato ti resta,
ogni giorno far festa.
Bagnami le radici,
che non sanno
quando sarà
il tempo di bere.
Io mi affido a te,
come l’anthurium
nel vaso rosso,
timoroso del sole…
Quante orchidee,
da noi, sono morte
di incolpevole boria?
Troppo belle, troppo accudite,
ammirate e non capite,
pur adorate
nella schiavitù padronale.
Resta solo
quella ostinata sfacciata
che non dà fiore, ma foglia,
che tu bagni con estrema,
quasi crudele, parsimonia.
Aspettando tempi migliori.
Così fai con me,
vecchio mio amante saggio!
Dammi poca speranza,
quel tanto che basta,
così, credi a me,
vecchio amante saggio,
non affogo nel dolore,
né appassisco di gioia.
A te non lo racconto,
che tanto non capisci.
Lo dico alle finestre,
a questi muri chiusi,
all’antro delle notti,
graffite dalle fiere
di demoni mentali.
Io sono molto triste,
dagli alluci ai capelli,
nelle anse intestinali,
negli atri e nelle arterie,
in vene e capillari,
nelle orecchiette e reni,
nei bronchi e nei polmoni,
nelle mie proteine,
nei miei tessuti tutti,
nel vortice incessante
del trend molecolare,
nel codice genetico
che rischia di sbagliare.
Io sono un animale
che fiuta un grande male
però non trova tane,
né strade per scappare,
essendo il suo nemico
del tutto senza odore,
più piccolo di un seme,
del polline di un tiglio
più zitto della morte,
che tanto è il suo compare.
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