Ecco che l’aria intorno
alla mia bianca pelle
di pori sensitivi
mi crea orripilamenti
di madida paura.
Persino i miei capelli,
vere antenne del fato,
fremono spettinati
da tristi mutamenti.
Queste le mie domande:
Presto dovrò destarmi?
Sentirmi un po’ felice
è stata un’imprudenza,
un sogno dopo sbornia,
così quando mi sveglio
mi resta l’emicrania?
Bark bark,
ho un po’ di tosse,
la camicia da notte
nessuna voglia
di ricominciare
e abbaio rauca
come un cane.
Non è influenza
è disperazione.
Petto lacerato
parto provocato,
la speranza
mi ha lasciato.
Un cesareo svelto
troppo alto
da macello
la punta de cuore
mi ha squarciato.
Scaraventa nel cielo
i pennelli rosati
ed intinti nel giallo
il Pittore impazzito
poi diffonde la chiazza
con le dita pentite
perché provi dolcezza
chi nel viaggio dispera…
Una difficoltà incommensurabile
a uscire dalla contemplazione
di un mio vuoto scuro, doloroso
opaco e calmo in modo spaventoso.
Strano toccare il fondo senza cadere
e senza preavviso. Eppure qualcuno
di nascosto in silenzio mi ci ha spinto.
Non so quanto tempo in ore o anni
richiederà il mio risalire fangoso
perché c’è dolcezza, amaro trastullo
nel non vivere senza dover morire…
Si trastulla fra insegne
come nuove altalene
un tardivo scirocco
a graffiare il sereno
coi suoi zufoli sparsi.
Una certa dolcezza
già ci allevia il tramonto
che si specchia ruffiano
su lascivia e stanchezza.
Ancorati, noi due,
ad un tavolo tondo
condivise le vite,
la tristezza, la sera.
Quando tu dormi
come un bambino
la mia insonnia ti veglia,
e come una madre
ti accarezza le mani.
È già autunno, per noi,
e la notte da domani
si ingoierà a morsi
i nostri piccoli giorni
fino a farli sparire
nel buio intestino.
Sarà per questo
inevitabile equinozio
che sento di amarti
immensamente di più
nel grigio mattino.
Finta la transumanza
anche la più bella mucca
la più premiata è nella stalla,
in terra la coccarda ambita
e sfatti i calpestati i fiori.
Eppure il paese è stato in festa
e c’era il mercato e ridere,
a noi, non è costato niente,
come l’amore che rubavi
al bianco dei miei denti
e alla lievità dei miei pensieri.
Sono partiti tutti i villeggianti,
gli alberghi sono chiusi,
la sera si è fatta fredda e silenziosa
e se non mi copro batto i denti.
Ti darò un figlio a fine primavera.
Non prenderai quel treno, spero,
di cui, d’inverno, parli sempre
e io ti credo, mi dispero e piango
e tu, ridendo, mi baci e mi consoli…
Sono semplicemente
alberi controluce,
sono verdi,
ma sembrano neri,
non c’è niente,
ma proprio niente
da aver paura.
Resto a guardare.
Il futuro si annida
nelle ore bastarde
della sera e trema,
sentissi come trema
il cuore. Così grande pare
la devastata attesa
di un domani
che non sia peggiore…
Già sistemato.
Quando finirà settembre,
la gravidanza dell’anno
partorirà l’autunno
grinzoso di vecchiaia
più che di immaturità
fetale e a novembre
nascerò io, animale
melanconico e mortale
che solifugo risorge
dalla resilienza scorpionale.
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