Silvia non canta
vano nel quieto borgo
ormai cercarla
Curvo un poeta
di lacrime inonda
lapide bianca
Sparge l’inverno
sulla funebre terra
fiori di carta
Silvia non canta
vano nel quieto borgo
ormai cercarla
Curvo un poeta
di lacrime inonda
lapide bianca
Sparge l’inverno
sulla funebre terra
fiori di carta
Ciao, figlio caro,
il domani è diventato oggi,
bene o male, la notte è passata.
Ma passerà la pioggia?
E passerà l’inverno?
Passerà il confino del silenzio?
E sarà la primavera
costellata di fiori
e i visi di baci
e il sole salirà ancora
alto nel cielo
e torneranno a volare
le farfalle nei prati
e tutto di nuovo
diverrà bello davvero?
Sarà saziata
la fame di abbracci?
Sarà l’equinozio
a portarci la luce?
Tu che corri con l’alba sul mare
e vedi la gente arrivare
e ti fermi a parlare,
conosci, o figlio, un profeta
che risponda
a quello che chiedo?
E sarà, lui, sincero,
mostrandoti gli occhi
finalmente chiari?
L’immagine che ho usato per illustrare la mia poesia è una fotografia di Paolo Scarpellini.
Solo un blando riflesso
di chiesa sfumata
in una vetrata a specchio.
Dilavamento di sabbia e di vento
con quel tanto di pioggia,
ma solo d’inverno.
Nessun rimpianto.
Eppure, al bar qui di fronte,
con un caffè in mano,
per sorbire le ore,
che son sempre più lente
quanto più l’età avanza,
c’è una donna seduta
con l’anima in mano
che guarda e riguarda
la cupola azzurra
nella lieve prigione
di chiaro cristallo
e giochi astratti dei raggi
del sole a settembre
e si domanda
se adesso sta meglio,
che più non si stona
con inni e preghiere,
pentimenti, peccati,
perdoni e campane
per sognare l’eterno, il dopo
beato. O se era più bello
temere l’inferno
che attendere, invece.
l’istante più odiato,
quell’attimo prima
dell’essere stato.
Già assaporo nell’aria
con il mio naso saccente
qualche sentore d’autunno
e poco capisco l’insistenza del tiglio,
la persistenza mentale dell’odore,
come se il mio cuore battesse
il tempo di giugno e il suo sole.
Lo chiamano rimpianto, ma io no,
quest’anno è stato tutto così uguale
e, per certi versi, brutale. Addio lembi
di estate sdraiata sul mare,
lacerata a sangue dalle unghie
di un vorace dolore, il boia
delle mie ore! Quindi anche l’onda,
col suo trasparente chiarore,
mi rimanda l’olfattiva memoria
algale del nascere e del partorire,
pur nell’ostinata asciuttura
di queste mie misere ore. E respiro,
avidamente respiro anche la neve,
dell’immortale ghiacciaio
che il vento iemale risveglia
in bianche fumate di gelo.
Bellissimo peraltro l’umidore,
senza quasi rumore né odore,
del prossimo inverno a venire.
Tetra teatralità del fuori luogo,
oggi è di nuovo primavera,
ma non vale la pena di parlarne,
troppi sono gli occhi che l’inverno
ha chiuso in fretta ed anzitempo
e non ci consola guardare i prati in fiore
pensando ai vuoti sguardi
di chi non li potrà più rivedere…
Oggi, a Castiglioncello,
mi sono seduta al caffè
della piazza, c’era il sole,
niente vento, una metamorfosi
del tempo che germinava viole
nel grembo dell’inverno,
promettendo un marzo caldo
e fecondo. E c’era la mia corte
di passeri affamati, dignitosa,
senza mendicare mi guardava
con tanti occhiuzzi tondi, attenti
e io facevo la mia attesa mossa
seminando briciole a spaglio
con ampio gesto divino,
un paradiso in terra, la manna.
E c’era un piccoletto bruno,
di piuma, diverso dallo stormo,
bello, sano, forte,
ma terribilmente tardo.
E io che fintavo per dargli
un poco di cibo. Finta a destra,
lancio a sinistra. E sono riuscita,
un poco, a sfamarlo, pensando:
Piccolo figlio, troppo mite…
Come una margherita
l’alba m’è sfiorita tra le dita
lasciandomi impaniata
nello stupore denso
di un giorno senza senso.
Oggi mi dilania i fianchi
la voracità del tempo,
che mi lacera il corpo,
il cuore, il sentimento.
Nel gorgo di un abisso
dal colore azzurro impuro,
come i lembi pesanti
che pendono dal cielo,
si sgretolano gli anni,
le speranze, il mio futuro.
Son finiti ad uno ad uno
primavera, estate, autunno
e manca così poco ancora
all’esizio rovinoso dell’inverno…
Per quanto averti
sia impossibile,
piccola chimera
dei miei sogni,
io vorrò darti
motivo di amarmi.
Io ti darò l’Oriente
di albe perfette
e tutti quei cieli
che porto nel cuore.
Tutti i miei giorni
il mio primo pensiero
sarà il tuo viso,
sei tu il mio sole.
Io coglierò i fiori
che sotto ai tuoi piedi
genera terra
al sentirti passare.
Ti darò il gelo
del mio ultimo inverno,
ti darò il fuoco
che accendi nel cuore.
Ti darò il tempo
di ogni respiro,
da quando ti vidi
all’ ultimo giorno,
ti darò il sempre
che ti fa eterna,
perché eterno
è l’amore che provo.
Tutto è sorprendente,
ma niente ci sorprende.
Da quanto tempo a noi
non trema più nel cuore
l’embrione dell’attesa,
il sogno, il desiderio?
Notizie dal terrazzo:
le gemme di tre rami
l’inverno traditore
dell’ultimo momento
ha congelato al vento
al piccolo bonsai
dell’olmo di Riccardo.
Ora è di nuovo spoglio,
proteso verso il cielo.
Se questo non è sperare,
di certo è somigliante
e il cuore mio dolente
già cerca di imparare…
Quando pensavo
che sarei riuscita,
io, un giorno, a volare,
spiccando nella danza
un bellissimo balzo
e i violini, tutti insieme,
per me, avrebbero pianto,
la mia giovane vita,
come un bocciolo
di camelia rosa, stretto
nella fine dell’inverno,
ma cosi pronto a sbocciare,
la mia giovane vita, allora,
mio carissimo Franz,
aveva ancora un senso.
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