Certe sere è vigilia,
come quando da piccola
aspettavo il Natale.
Malinconia e speranza,
perché quello che è stato
non potrà ritornare
e l’attesa di un giorno
che sia un po’ più speciale,
una domenica di sabato,
un amico che chieda
-come va, vecchia strega?-
e poi ridere insieme,
per un fatto normale…
Cinque camini allineati
scenari della sera
sopra i tetti. Note acute
delle antenne verso il cielo
lo spessore del silenzio
ed il suo peso. Rantolando
inghiotte gente e passa
la voracità di un autobus.
La mia malinconia non parla,
attende.
Saudade: rimpianto del passato, nostalgia di un futuro che non sarà, speranza, accettazione…
Verrò a cercarti nel passato,
viaggiando verso il dove e il quando
su quanti di ricordi e di speranza
e troverò quella deformazione immensa
in qualche curvatura di universo
che la tua grande grande stella
sorgendo nel mio cuore ha generato.
Una sera come questa
-con l’ala del gabbiano
che dipana il cielo
in esili biancori nuvolari
e le pareidolie di un nuovo mondo
e laghi blu profondo
e torridi deserti accanto
che un fuoco porpora riarde-
c’è troppa tenerezza dentro
per essere reale . O assurda levità
della speranza!
Cercando flussi d’anima
morfologie sonore
di spiriti silenti
suonavi solo il theremin
vibrando di speranza.
Svegliavi le molecole
nel buio della stanza
in vortici invisibili
nasceva la gran danza…
La musica energetica
scendeva giù dai tempi
cantava mondi e stelle,
le nascite, le morti,
la vita prepotente
che eternamente scorre,
un unico respiro
in noi dall’universo,
un unico gran cuore
che batte, batte, batte…
Dopo le otto di mattina
la forza della luce
vince le persiane
ed allaga la soglia
della portafinestra,
in diurna alluvione.
Ho fatto molto tardi,
ma non mi voglio alzare,
il letto è circondato
dalle Everglades
(la Florida che temo)
e se poserò un piede
sul nudo pavimento
tutta la mia speranza
che porto dentro il cuore
sarà mangiata a morsi
dal vecchio alligatore.
Ero così contenta…
E poi la vita cambia,
ma, prima che succeda,
non hai nessun sospetto.
Cantavo per le Palme
ed ero in processione,
stringendo la tua mano,
a fare festa grande
insieme al Gran Reietto
che forse s’illudeva
di avere giorni d’oro
e onore e cavalcare
miglior cavalcatura
di un asinello bigio.
Passati lenti i giorni
della persecuzione
oggi mi rendo conto
che ho perso quasi tutto,
i giorni del mio regno
sono così lontani,
la fede e la speranza,
le palme del trionfo.
Resta la piazza vuota,
con gli echi del ricordo,
ma sono ancora qui
e tu sei al mio fianco
e in fondo al cuore sento
che un giorno torneremo.
Basta
pochissima luna
e le pietre del fiume
brillano al buio,
pallide stelle,
e, come in cielo,
per la carezza
dell’acqua,
tremano piano.
Così non fu per noi,
mio amore lontano,
non c’era
nel grembo nero
dell’ultima notte
nemmeno una luce
per farti tornare,
eppure rimasi,
rimasi per anni,
ferma col cuore
sull’inutile sponda
ad aspettare,
né fu lanterna
la speranza, né faro
il mio pensiero,
né la mia voce
lucciola estiva,
che continuava,
pulsando sul ritmo
del sangue agitato,
il tuo caro nome
a invocare.
Io dissi:
“Finalmente le rose!”
E fu primavera,
un sospiro di vento,
la pioggia più dolce,
e la speranza,
breve a fiorire,
petali sul cuore…
Poi dissi,
affacciata alla notte:
“Come è calda
la sera!”
Ed ecco l’estate
che brucia da sola,
per l’incapacità
di commozione,
e l’aridità del cielo.
Non piove,
riarso è il giardino,
le crepe sul cuore,
il viola dell’ibiscus,
fiore da funerale…
La speranza sarà l’ultima a morire
come gli ombrelloni chiari verdi
aperti sul terrazzo troppo stretto
affacciato sul sole della piazza.
Inventiamoci un’estate al mare,
i rumori del parcheggio sono onde
e la vela che ci porterà lontano,
ormeggiata a portata dello sguardo,
fa cantare nel libeccio alle sue drizze
la promessa del gran viaggio che faremo.
Chiudi gli occhi amore mio, fa meno male
varcare un orizzonte inesistente
che l’amara delusione del presente.
Nota: L’immagine è una mia libera elaborazione digitale di una foto di Google Earth 2017
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