Accoglimi
Piacevole
Rilassante
Infiorato
Letto.
Estasi
Díonisiaca
Onirica
Lánguida
Concedimi.
Evoca
Divine
Ossessioni
Ricordi
Mistici
Improbabili
Resurrezioni
Eternizzanti.
Accoglimi
Piacevole
Rilassante
Infiorato
Letto.
Estasi
Díonisiaca
Onirica
Lánguida
Concedimi.
Evoca
Divine
Ossessioni
Ricordi
Mistici
Improbabili
Resurrezioni
Eternizzanti.
Già, oggi è il 14 febbraio…
L’alfabeto farfallino
mi svolazza nella mente.
Eran quelli i miei bei tempi
o lo sono diventati
nel ricordo da demente?
Non vorrei tornare indietro
per riavere giovinezza,
occhi verdi come un mare,
lunghe chiome molto chiare?
Non vorrei sdraiarmi a letto,
fare l’esca palpitante
con pochissimi indumenti
per saziare i tuoi tormenti?
Io lo nego e invece mento,
sono saggia, irriverente,
e la vita mi ha insegnato,
ma non è servita a niente.
Vorrei perdere il mio ingegno,
le mie acute prospettive
e vederti come un falco
che mi plana sulla carne
e baciarti, e tu baciarmi,
soli e insieme e sia per sempre.
Nella penombra guardo
il letto addormentato.
Conserva nelle pieghe
sue disfatte
ogni notte un pochino
di respiro,
quando affrettava
i battiti il mio cuore,
mentre la bocca
ripeteva “ancora!”
Ah, l’amore,
mai sentito freddo
In quei momenti…
E adesso cose opposte,
sofferenti, ed il rumore
del concentratore,
l’ossigeno che arriva,
per fortuna, e tu, che,
come sempre,
“mi” respiri…
Auguri speciali e tutta la mia gratitudine agli addetti alla consegna dell’ossigeno (io ne conosco due, per motivi, io credo, di turnazione,) che ogni Venerdì mattina mi portano la bombola, una finestra aperta sull’aria fresca di una vita indubbiamente migliore. Non c’è sensazione più bella del respiro che “funziona” e questo l’ho capito solo quando mi ha tradito. E lo fanno con gentilezza e col sorriso. Buon Anno a loro e a tutti quelli che passano di qua.
Tristissima di povertà non sonora
-non mi lamento, non piango, non racconto-
mi sfogo sull’eczema di un braccio e poi mi fermo.
perché il sangue romperebbe il segreto.
E mi vedo sul greto del torrente di Albenga,
quando ancora non sapevo niente di niente
e per questo speravo e ridevo ed ero il re
del mio piccolo mondo, che confinava col mai
e col sempre, per quanto vicina io ero alla nascita
e lontana, lontana dalla mia morte. Eppure
qualcosa intuivo, quando la sera vorace
si mangiava la mamma, se nessuno accendeva
la luce di casa e il suo bel viso un po’ triste
splendeva nel bagliore inquietante dei lampi
e, in fondo in fondo, la Gallinara era nera,
o quando la mite oca bianca delle rive del Centa,
senza volere, mi feriva con la lingua coperta di denti
se con la piccola mano le davo il mangiare
e io ci rimanevo molto male… Perché mi morde?
Così adesso sono tale e quale a quel tempo
e, da dentro il cuore, esigerei esser nutrita
d’ amore e mi vergogno, lo so che non va bene,
ma vorrei averne almeno quanto ne ho dato.
Pareggiare, in questa maremma amara di ora,
quasi tutti i conti e, posta la mummia semiviva,
l’indegna quiete in cui mi trovo bendata adesso,
sul letto di tutte le sere, morire finalmente d’amore.
Senza di te, le tue piccole abitudini
a volte così moleste, ma così tue,
il tuo passo dolcemente claudicante,
io non vivo più, mio dinamico peluche,
caldo mite animale.
Tu mi disegni la casa,
i suoi spazi con invisibili segnali,
sei qua, sei stato là, tu ci sei
anche quando te ne vai.
Non mi lasci mai, ti odio a volte,
quando ambiguamente non sai
se mi ami o non mi hai amato mai.
Ma menti, io so che menti,
me lo dice la tua mano che intanto
mi tocca come se con le dita
mi baciasse tutta e non mi lascia scampo.
Mi mangi, ti mangio,
stiamo al caldo insieme in questo letto
cui la vita scivola sotto
e tutto il bene e tutto il male
è insieme unico e banale.
Tu dirai: “Che novità!”
E non hai torto, ragazzo.
Stasera sono triste e lo confesso,
mi sia è aggrappata al cuore
questa luce artificiale rossa
che tenta di scaldarmi il malumore
con le inventate stelle dei faretti
che artigliano le tende polverose
coi riflessi adunchi ad attaccarsi
al cielo nero, fuori, in qualche modo.
Niente mi allevia dall’ondata
di lecita paura di morire sola
in questo mondo stolto e sciocco.
E l’ambulanza intanto passa
e grida: “State attenti, non aprite
alla morte, la notte di Ognissanti!
State a casa per Halloween, quest’anno,
bevete del buon vino con gli amanti
e poi di corsa a letto a far l’amore!”
C’è chi ha tempi diversi,
mentre il giorno è già alto
e la strada garrisce
con le rondini in cielo
di saluti e di voci:
La fermata del bus,
la posta, il mercato
con la coda ondulata
di troppe formiche…
(E che il gaudio di oggi
non diventi dolore!)
C’è chi resta nel letto,
soltanto a ascoltare,
c’è chi i timidi passi
può portare in terrazza
e pian piano si affaccia
e può anche guardare.
C’è chi aspetta il domani,
e sa già di guarire,
e per questo sorride,
c’è chi ha tempi più incerti
e può appena sperare,
c’è chi ha il lutto nel cuore
e, parlando all’amato,
come avendolo al fianco,
con le lacrime agli occhi,
gli sussurra in un soffio:
“Guarda, amore, c’è il sole!”
Così, senza gloria,
è incominciato marzo,
in gramaglie di nubi
e lacrime vedovili
e un color grigio cielo,
uno strano celeste
umiliato dal nero,
che non pare un colore,
ma la veste dismessa
di una donna fuggita
sgusciando via nuda,
da una delusione d’amore,
abbandonando sul letto
dell’ultima notte
tutta una vita, un passato,
una storia.
Perché non dormi ancora?
Perché quando chiudo gli occhi
vedo pozze azzurre e foglie di palma.
Perché nel buio mi sento sfiorare
da persone. Tante. Come se tutti
dovessimo passare dallo stesso
varco stretto. E i loro fiati addosso.
Perché il mio corpo è dismorfico
nel letto. Ho la testa grossa e braccia
e gambe di gomma molto lunghe.
Perché la volta della stanza si estende
in una cupola infinitamente grande.
Perché mi si spacca la fronte di netto
e mi esce fuori la mente e si espande
in un vasto universo creato dal niente.
dalla viltà del natale
che, dalla vanità della neve
dei suoi accampamenti invernali,
mi raggiunse a Livorno
colpendomi alle spalle
con una pugnalata
sottoscapolare,
pneumotorace esistenziale,
mi rifugiai al triage
di quel piccolo bar
di via Grande
per respirare.
La cameriera,
vestita normale,
mi domanda operosa
che cosa mi può portare
“Una cioccolata calda!”
singhiozzai moribonda.
(E chi se ne importa
se fa ancora caldo
sotto l’alito affranto
di un libeccio epocale?)
“Ma che sia dolce non troppo
e molto, molto amara
per buttar giù in pochi sorsi
i miei vecchi vecchi ricordi…”
…Io già sorpresa in agguato,
oramai quasi morta,
mi buttai ieri sera
dentro il letto a riposare.
Verso l’alba,
incalzando ancora
un gran vento e il tenebrore,
riprese a battere piano,
sotto il palmo
della mia stessa mano,
il mio cuore solstiziale.
Per ricominciare…
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