Tramontava il mio giorno
dentro a una bocca di buio
spalancata a occidente.
Con la bocca serrata
si tuffava nel niente
trascinandosi dietro
una sciarpa di luce dorata.
Goditi, anima,
questa tua solitudine
e fai spazio al dolore
come parte vivente
della tua umanità,
così come la terra
quando il cielo le piove
inclemente sul corpo
sdraiato, indifeso.
Ancora una volta
esplode il sole.
Cola il soffitto
del corridoio,
muore il suo grigio
in questo tramonto.
Luce furtiva
che dura un secondo,
grande la gioia
per questo mio istante,
dove la gloria
si rappresenta.
Lame di cielo invernale
così ben affilate
da provocare dolore
confitte dagli occhi
nel cuore. Stalattiti
di ghiaccio scendendo
in logorio di gocce di pianto
troveranno infine la pace
trapassando il terreno,
il manto glaciale, il silenzio.
A me piacque danzare.
Coi dolorosi puntali
delle scarpette infernali
e con l’acerbità del corpo
provare a ricamare
le magiche storie
del mio mondo invernale.
Ma, quando gemeva
l’assito del palco
e il pubblico immoto
aspettava il mio balzo,
già mentre volavo
avevo paura. Fallire?
Cadere? Adesso ripenso
al mio cuore bambino
e a quella grande paura,
che, per farla farla finire,
ci fa rinunciare…
Albeggia in azzurro puro
e già pare un fremito d’oro
un gabbiano in volo.
L’eco in o gutturale
di un lontano abbaiare
perfora lo spesso lucore
con un tunnel circolare.
Entra la prima aria annuale
nel mio lume bronchiale.
Tosse, sospiri, tremore,
un tè fra le mani notturne
con vapori clementi mi cura.
Il roseo pennello ad oriente,
già traccia la porta del giorno.
Per quanto tondo e profondo
sia questo assurdo silenzio
chi veglia comincia a sperare.
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