Sembrano mani
queste alghe palustri,
giochi di bambino
in un bianco lavandino,
baluginando a sera
ricordi e proiezioni
di ombre del passato
a assorbimento lento,
un filtro di memoria
in questo gran silenzio.
Sembrano mani
queste alghe palustri,
giochi di bambino
in un bianco lavandino,
baluginando a sera
ricordi e proiezioni
di ombre del passato
a assorbimento lento,
un filtro di memoria
in questo gran silenzio.
Finestra delle quattro e trentadue
con quell’albero grosso
e la mia voglia di dormire,
silenzio ospedaliero
e luce artificiale,
l’artiglio della morte
addormentato,
l’ossigeno che va
per l’albeggiare…
Suona il salterio
questo piccolo vento,
sezionando in cristalli
un freddissimo cielo
in splendori d’aprile,
anomalie di silenzio
ovattando le orecchie
sempre tese a captare
il rumore normale
della vita che va.
Non ci sono gabbiani,
tace il tetto ed al suolo
solo asfalto e abbandono.
La domenica qui
pare proprio un deserto,
non importa per quanto
la campana del duomo
ha chiamato e chiamato
le sopite virtù
di una fede ormai morta,
di una Pasqua che fu.
Ma qualcosa si muove,
rattrappito dal gelo,
stracci sporchi sciorina
un risveglio a fatica,
sotto il portico scuro,
sulla panca di pietra,
sui gradini maestosi
dell’ufficio postale.
L’ungherese sta bene,
gli altri ancora non so.
Ciao, figlio caro,
il domani è diventato oggi,
bene o male, la notte è passata.
Ma passerà la pioggia?
E passerà l’inverno?
Passerà il confino del silenzio?
E sarà la primavera
costellata di fiori
e i visi di baci
e il sole salirà ancora
alto nel cielo
e torneranno a volare
le farfalle nei prati
e tutto di nuovo
diverrà bello davvero?
Sarà saziata
la fame di abbracci?
Sarà l’equinozio
a portarci la luce?
Tu che corri con l’alba sul mare
e vedi la gente arrivare
e ti fermi a parlare,
conosci, o figlio, un profeta
che risponda
a quello che chiedo?
E sarà, lui, sincero,
mostrandoti gli occhi
finalmente chiari?
L’immagine che ho usato per illustrare la mia poesia è una fotografia di Paolo Scarpellini.
Un cielo lebbroso
si sfalda sui tetti sghembi
in liquidi umori.
Nel grigio silenzio
scivola il tempo sui cuori.
Malata è la carne d’amore
che il rimpianto divora.
Santa Lucia,
non buttarmi la cenere
dentro ai poveri occhi!
Sono qui, desta,
ma non per i doni.
Ancora domenica
e il vuoto nel cuore.
La casa dorme,
dorme il mio uomo,
tutto è silenzio,
il nido è ormai vuoto.
Faccio la conta,
va tutto bene:
Il figlio bene,
nella sua casa,
il cane bene,
forse ora sogna,
di correre al mare,
piccolo e fiero
è felice davvero.
Bene sorella,
nipoti bene,
una cugina
guarita da poco,
l’altra sta bene.
Santa Lucia,
non mi accecare,
sai cosa voglio
e mi basta davvero.
Quando mi alzo
ti faccio i biscotti,
almeno uno
lo devi assaggiare!
Buon 13 dicembre a tutti, in particolare a chi porta questo bel nome, che a me è sempre piaciuto tantissimo.
Surreale silenzio dei camini,
han legato la gola alle campane,
un cielo azzurro terso offerto
al fendente d’ala dei gabbiani.
C’è chi aspetta che il morbo finisca,
che ritorni la colomba in volo
col ramoscello verde al becco
recando nuova pace all’arca.
Ecco che piove, infine.
Forse ci farà bene.
Intanto, qua fuori,
il tavolo deserto
offre il suo grembo
al pianto del cielo.
Nudità del dolore,
grande silenzio
di cani, passeri
e poveri umani.
Lontano, col vento
l’urlo grigio del mare…
Lame di cielo invernale
così ben affilate
da provocare dolore
confitte dagli occhi
nel cuore. Stalattiti
di ghiaccio scendendo
in logorio di gocce di pianto
troveranno infine la pace
trapassando il terreno,
il manto glaciale, il silenzio.
Albeggia in azzurro puro
e già pare un fremito d’oro
un gabbiano in volo.
L’eco in o gutturale
di un lontano abbaiare
perfora lo spesso lucore
con un tunnel circolare.
Entra la prima aria annuale
nel mio lume bronchiale.
Tosse, sospiri, tremore,
un tè fra le mani notturne
con vapori clementi mi cura.
Il roseo pennello ad oriente,
già traccia la porta del giorno.
Per quanto tondo e profondo
sia questo assurdo silenzio
chi veglia comincia a sperare.
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