Guarda com’è pesante
questo cielo di pietra!
Forti colonne
a sostenerlo
prima del tuffo
nel mare tormento.
Questo, mio caro,
è il cielo del cuore,
un cielo finito,
come un telo gettato
fra la mia Finis Terrae
ed il tempo che resta.
Guarda com’è pesante
questo cielo di pietra!
Forti colonne
a sostenerlo
prima del tuffo
nel mare tormento.
Questo, mio caro,
è il cielo del cuore,
un cielo finito,
come un telo gettato
fra la mia Finis Terrae
ed il tempo che resta.
Una casa nel bosco,
dove andare con me,
poche cose carine
e la mia grande amica
Disperazione,
su per la strada
che porta da Biella
al paese del cuore.
Noi avremo un divano,
un fuoco di legna,
anzi un camino,
con la brace, le fiamme
e quell’odorino.
E una grande finestra
per guardare la neve
cader giù fino a quando
ci gira la testa.
Un coniglio di Pasqua,
venuto su fuori tempo
dagli anni Cinquanta
e quel che ne resta
per ornare la mensa.
Una buona minestra
a bollire sullo spargher
di marca tedesca
e calzini di lana.
Un violino per lei,
la mia amica più mesta
e il bel canto per me,
a ululare alla luna
il dolore e il rimpianto.
Uh, quanto male
e quanta tempesta!
Sia bandito il Natale
e proibito far festa!
Spunta la verità
– e ce la metto tutta
per dimenticare –
Appesa allo specchio
la mascherina nera,
vicino alla porta d’ingresso
a spenzolare.
E tutto intorno in attesa
un Natale minimale
del tutto compatibile
con la miseria attuale.
L’augurio più bello,
da quello che vedo,
è avere speranza,
coraggio, pazienza,
praticare l’amore.
Piccolo souvenir ospedaliero
che mi si accese
al tardo petto
con baci fondi
da vero amante
-e mi spiava il cuore
e io gli giacqui offerta
in nudità tremante,
ansimando verità
dal respiro incostante-
lui la vide tutta
con il suo occhiuzzo nero
la mia verginità dolente
mentre la lingua secca
mi brancolava in bocca
e l’infermiera sorridendo
un po’ mi consolava….
Luci dell’alba
su un vecchio Natali.
Quante volte quel ponte
verso un breve infinito
attraversa lo sguardo,
oscillando tra il vero,
i miei sogni, il passato!
Uno specchio beffardo,
appeso proprio vicino
a ripetere ancora
quell’eterno mattino
che non fu, non sarà,
illusorio cammino,
un coagulo sfatto
di colore inventato.
Dedico queso post alla memoria del pittore Renato Natali, grande interprete dei cieli livornesi. Suo è il quadro che ho fotografato per illustrare i miei versi, osando immergerlo in una luce artificiale che simula l’alba.
Vorrei essere a Sordevolo,
trasportata da una bolla di sapone
e posarmi sul mio cuore tralasciato
nelle strade, nei sentieri del passato,
per sentire con le orecchie di bambina
il silenzio di cotone del mattino,
con il naso l’odorino del camino…
Per illustrare questi versi, ho modificato digitalmente una foto di Annamaria Cavalieri, che ringrazio per il prezioso contributo.
L’immenso ovile
del venerdì pomeriggio…
Rincasano i greggi
belanti tormenti,
ma in fondo contenti.
Scappando dal morbo
hanno in molti imparato
a dormire, soltanto,
per divertimento,
lasciando ad altri giorni
e a più stupidi armenti
la transumanza forzata
dell’outlet con spesa.
E lanugini in volo
da finestre socchiuse,
che si posano piano
sul prato invernale,
confondendo fra il vello
sogni puri bambini
fra la neve dormienti
e una pace più umana
tu potresti trovare,
Dafni, antico pastore…
Allora bisogna accorgersi di te,
per quel tuo voler essere pungente.
E come sospira la tua bocca densa
di nebbia, o forse fiato di condensa,
masticando le grida di sirene
che mugghiano dal mare alle polene!
Ci dorme dentro tutto quell’amore
che ci accaldava le membra,
l’altra estate, fino alle soglie dell’autunno.
E ora ritroviamo sul cuscino
più cha altro una gran consolazione
per essere vicini e caldi e insieme,
io e il mio amato unico bene
e, questo lo speriamo, lontani dalla morte.
Ti apro le finestre per esserti accogliente
e mi ti diluisci dentro, ma fai bene,
al fondo dei polmoni inariditi,
gustando io il tuo ghiaccio scricchiolante,
il tiepido sorriso del mio amante
e mite, la speranza del futuro,
cantata dalla bocca del camino.
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