Chi doveva farlo l’ha fatto:
È andato alla morgue
a lasciare le ossa.
Ora il campo è fiorito
di pallidi crochi,
qua e là qualche fungo,
e in cielo potresti vedere
tanti giovani angeli.
Chi doveva farlo l’ha fatto:
È andato alla morgue
a lasciare le ossa.
Ora il campo è fiorito
di pallidi crochi,
qua e là qualche fungo,
e in cielo potresti vedere
tanti giovani angeli.
Oggi lo sento nell’aria
questo novembre di ossa,
fradicio triste colloso,
striscia sui tetti di pioggia.
Cadaveri vani di canto
sfogano i mesti gabbiani
rincorsi dal rude maestrale,
traditori immondi del mare.
Quanto lontana è l’estate!
Quasi non provo rimpianto.
Sai, mi succede ogni giorno
di non volere più niente
indietro dall’avido tempo.
Intanto sbiadiscono in cielo
le ultime stelle al mattino,
io sono svegli dall’alba
e con i miei morti in ritardo
mi giro la casa in silenzio
spazzando i fasti di ieri
con questa coperta di lana
che mi riscalda le spalle,
strappata ad un letto di sogni
che ormai chissà dove vanno.
E adesso cosa faccio?
Dormite tutti in casa,
sdraiati dentro i sogni
coi visi sdolcinati
di grossi cherubini.
Persino il cagnolino,
da quanto è rilassato,
mi pare uno zerbino
senz’ossa e volontà.
E io vorrei, ma tanto,
avere un buon caffè,
e cereali dolci
con il mio latte freddo,
i ponti in carità
per transitare sveglia
dal sonno alla realtà
e sopportare meglio
quello che mi accadrà.
Io amo l’open space,
salvo che in certi giorni,
quando non c’è la sveglia
perché non si lavora
e l’ ospite contento
poltrisce a sazietà…
Forse un po’ scherzose
a volte frettolose
ancora ho su di me
le mani dell’amore
sul corpo del passato
che solo vedi tu.
Immerso nei vapori
dalle paludi calde
del tempo dei ricordi
riporti a me il sorriso
che avevo in gioventù…
Piccolo Adamo mio,
così provato
dal peccato originale
da diventare vecchio,
come succede a me,
del resto,
grazie dalla tua Eva
che ti mordicchia il cuore,
per farti rimanere
e il caro corpo offerto
come fosse una mela,
grazie per il dolore
che aiuti a sopportare,
rendendolo leggero,
forse lo porti addosso,
condividendo il peso
con le mie ossa stanche,
grazie per farmi dire
“domani starò bene…”
Inadeguato pulcino
di uno stormo che vola
cado giù, a conoscere il suolo,
sparpagliando le piume
sopra un pugno di fragili ossa
e la fossa sembra il male minore,
che mi accoglie e distoglie
dall’emorragia di dolore
e l’autunno così rosso di foglie
pare un cuore che accoglie,
così giallo e arancio di foglie
pare un letto caldo di sole.
Di te
solo questo mi resta:
i sacchetti di ossa,
l’amatissimo teschio,
le tibie e i peroni
con le ossa del piede,
il tarso e il metatarso
e gli astragali, certo,
per giocarmi la vita
così come viene.
A me la vita suona dentro,
a volte dissonante,
a volte piano, a volte lento,
a volte andante, a volte al ritmo
pazzo di una giga popolare.
Ed eccoli i miei sogni svergognati
che ballano sull’aia dell’amore
e tutti quegli scheletrì sbiancati
che si percuotono da soli
xilofoni di ossa sul torace
e cantan funebri lamenti
in do diesis minore.
Mi godo le mie pioggie e i cluster
che corrono sui vetri dell’inverno
appena appena prima di gelare
e si flagella il theremin del vento.
I miei pensieri, credo, sono questo,
pentagrammati su ali di colore,
e tutte quelle trombe in fondo
che un giorno squilleranno
il mio improrogabile finale.
Grissini al cioccolato
complementi nutrizionali
e una noia mortale.
Spiaggiata senza forze
alla televisione
arenata nella sabbia
di un divano nero
che ingoia le mie ossa,
povera balena, coi fanoni
filtro il krill dei giorni
e vorrei bocconi grossi
e di maggior sapore.
Ottima giornata
per pensare,
oggi 21 settembre
ore cinque e quaranta.
Una tragedia
pre equinoziale,
di qui a poche ore,
vedere la vita
che si fa divorare.
Giorno per giorno
più vicina la notte,
ingoio pastiglie
per non invecchiare,
grossi mattoni
che sembrano ossa,
sperando alla fine
di non soffocare…
Non mi riscalda
questa primavera…
Presto, datemi da bere!
Bere all’indietro
fino a quello ore,
quando i! mio sangue
si faceva miele,
la pelle chiara
spogliata del pudore,
la testa che ronzava
come un alveare
e da dentro il petto
rimbombava il cuore.
I tamburi, i tamburi,
i tamburi dell’amore,
la mollezza delle ossa
liquefatte di stupore,
gialli seneci ebbri,
recisi nel bicchiere.
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