Quanto di questo ci appartenga
non ci è dato sapere, amore mio…
All’improvviso nel vento mi rispondi:
Tutto quello che con gli occhi portiam via,
finché dura questa vita e così sia…
Quanto di questo ci appartenga
non ci è dato sapere, amore mio…
All’improvviso nel vento mi rispondi:
Tutto quello che con gli occhi portiam via,
finché dura questa vita e così sia…
Ah! Insensata Brigitta
che hai fatto lo sgambetto alla tua vita
e sei finita giù, giù, giù.
Potesse risvegliarti il lieve tocco
delle dita di tua madre
che t’accarezzano il viso di cera,
falene disperate!
La senti come piange?
Ti ha amato. Le manchi.
Ah! La morte, bestia impudica
che leccava il tuo sangue,
china sull’asfalto bagnato.
Godeva. E rideva, rideva. Che iena!
Sapessi quanta folla hai radunato
nella piazza dell’ultimo teatro.
Bella gente! Sfaccendati, curiosi, morbosi.
Un successo. Qualcuno ha vomitato.
Ma adesso, sorgi dal lettino di marmo!
Troppo stretto per te, troppo freddo.
Sarà lunga la notte all’obitorio,
in mezzo a quei due vecchi stecchiti
con gli abiti neri ammuffiti.
Senza Bobo, l’orsacchiotto lilla
con le orecchie rosa consumate.
E tu sei bella nel vestito lungo bianco,
ricoperta di fiori. Sembri la Primavera.
Dai! Stringi la mano di tuo padre
che ti aiuta ad alzarti.
Lo so. Quel giorno aveva fretta
e non ti ha voluto ascoltare.
Però, oggi, il tempo l’ha trovato.
Brigitta, perché l’hai fatto?
Per un misero bacio del perdono
che troppo ti è mancato?
Su, non essere cattiva.
Tra poco se ne andranno.
Torna a casa con loro.
Li senti come piangono?
Sono pronta a giurarlo:
li hai puniti abbastanza.
Ti ricordi i nostri aperitivi tristi
e la certezza che mai più
saremmo ritornati?
Era quel bar sull’angolo, la sera
che non faceva affari
e suonavano un buon jazz
e noi, chissà perché,
ci sentivamo morire.
Era gentile, il cameriere
accendeva la lampada viola
nell’ombra ci faceva sedere.
E c’era il vecchio artista,
che era stato grande
che canticchiava piano
con la sua voce nera
quasi senza farsi sentire,
ma sapevamo chi era.
E beveva il suo vino
con moderazione
e si mangiava un panino,
la cena. Quanto è durato?
Una, due volte, forse tre, mi pare
e mai più, mai più ritornare.
Cercando anima
come affamato
airone d’inverno
saltello giardini spogli
di speranza. Disperata
pigolo sabbia cinerina.
Muta, affamata.
Danze mutate in volo
Tutte le città di notte
Tu che non mi vuoi amare
Calzini corti rosa
Sandali di suede nero
Mi parla un uomo bleso
Il mio dottore non mi cura
Stradina senza sbocco
Muri di pietra grigia
Mazzi di rose rosse
Com’è vicina l’alba
Tetti sporgenti acuti
Angeli di marmo in alto
La notte, passando,
si china sul lago
ad attingere stelle
che forse lei stessa
dal cielo ha gettato…
Ichirogamaim.
Trascinatemi là, per favore
quando mi rotolerò per terra
gemendo di dolore.
Ve lo chiedo da adesso
perché, dopo,
non saprò più parlare.
E dovrete far presto
prima che mi perda
nel silenzioso orrore
di una quieta follia.
Non abbiate paura.
Diventerò una piccola cosa,
una spazzola per vestiti
con le setole grigie
abitate da ragni neri.
Così infetta sarà la mia mente,
così infetti i pensieri.
Nel mio sangue infermo
raccolto in una zuppiera
caritatevole
di plastica verde
galleggerò quietamente.
O diventerò un gomitolo
di lana usata rossa
che più non si dipana
in pensieri.
Troppo infeltrita la mente,
troppo infeltrita la vita…
Strano mare oggi a Tirrenia, colorato di tempesta e di alghe. Le onde galoppavano in tutte le direzioni, con effetti particolari…
(Sullo sfondo è visibile la Gorgona)
Haiku
Un’onda verde
attraversando il mare
nel sole appare
SCENA PRIMA: Interno. La sala d’aspetto di un ambulatorio medico.
Si apre la porta di uno degli studi e si affaccia l’ortopedico.
Musica ambient, lieve brusio di voci.
ORTOPEDICO
Avanti il prossimo.
SCENA SECONDA: L’uomo in nero si alza. Di alta statura, ha
i capelli castano ramati che gli scendono sulle spalle, un
cappotto lungo quasi fino ai piedi. Sul pavimento a scacchi
bianchi e neri spiccano i suoi stivali, lucidi, dalla forma
rigida, sollevati sulla punta come se fossero vuoti.
Rumore di passi pesanti.
SCENA TERZA: Interno. Lo studio di un ortopedico.
ORTOPEDICO
La prego, si sieda. Mi può ripetere il suo nome e dirmi quanti anni ha?
UOMO IN NERO
(Sedendosi) Mi chiamo Sammael Dugonics. Noi nomadi non conosciamo
con precisione la nostra data di nascita.
ORTOPEDICO
(sollevando lo sguardo per osservarlo meglio)
Direi che se scrivo trenta, non sbaglio di molto. Domicilio?
UOMO IN NERO
Non ho fissa dimora. Attualmente risiedo al Grand Hotel Palace.
ORTOPEDICO
Mi dica pure: qual è il suo problema?
UOMO IN NERO
Voglio sapere se c’è un rimedio per la deformità dei miei piedi…
ORTOPEDICO
(Annusa l’aria infilandosi con espressione perplessa i guanti)
Si accomodi di là, sul lettino… Lei, per caso, soffre di eczema?
UOMO IN NERO
Non ne ho mai sofferto. Che cosa glie lo fa credere?
ORTOPEDICO
Sento un forte odore di lozioni medicamentose… allo zolfo.
UOMO IN NERO
(Sorride sardonico avviandosi verso il paravento)
Shampooing anti forfora, dottore. Ai capelli ci tengo.
SCENA TERZA: Interno, parte dello studio, dietro al paravento.
L’uomo in nero, seduto sul lettino, si sfila un solo stivale
e si tira su la gamba di un pantalone. L’ortopedico fatica molto a
dissimulare lo stupore mentre osserva una zampa pelosa, che
termina col piede caprino, a zoccolo fesso.
UOMO IN NERO
Allora, dottore, adesso ha capito?
ORTOPEDICO
(Con voce malferma.) In questi casi la chirurgia sarebbe troppo
invasiva… si dovrebbe amputare. Un arto, caro signore, per quanto
deforme, ci serve meglio di una bellissima protesi. Potremmo
studiare un presidio ortopedico permanente, ancorato… allo zocc…
ancorato al supporto corneo!
UOMO IN NERO
(Deluso, stizzito) Quanto la fa lunga dottore! Io sono Satana,
Belzebù, il diavolo, il Maligno, come preferisce, e sono qui per
proporle un patto.
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