Diciamocela tutta
senza far rumore:
Ho una tal pura
che mi scoppia il cuore.
Non ho più voglia
di darmi la baia
fingendomi a un tempo
una brava massaia
che impasta la pizza
e tira la pasta
e poeta ottimista
che canta l’amore.
Sono invece
una bambola vecchia
di celluloide
tutta ammaccata.
Ho la testa pesante
e lo sguardo fissato
per sempre su un punto
da un’ incapace
manata di stucco,
il mio meccanismo
per muovere gli occhi
essendosi rotto…
E la speranza,
falena d’amianto,
svolazza lontano
dal campo visivo
di un rudere umano.
Continuerà il sole il suo lento cammino
inesorabilmente verso l’ occaso
dietro la piazza, prendendo, non visto,
la strada del mare. Io lo so bene,
però non lo scorgo dalla terrazza
all’ultimo piano di questo quartiere.
Vicino al cantiere, all’inizio del viale,
c’è un piccolo approdo di scogli e di rena.
Prenderà la sua barca, nascosta a ridosso
di tamerici e palme straniere.
Remando, remando, tingerà l’acqua
del mistico oro delle sue braccia.
A mille remate dalla Bellana,
si tufferà svelto, levandosi il manto
di porpora fine, gettando uno sguardo,
velato di verde, al mondo serale.
E, inabissato in un luogo profondo,
sprofonderà nel suo sonno regale.
Nel sogno del mare
c’è sempre il tramonto
che confonde lo sguardo
e non sai dove andare.
Ci sono le barche
a filo dell’acqua
e incursioni improvvise
di onde inattese
e il nero del fondo
di un gorgo profondo
si spezza nei guizzi
di bagliori di sole
che sembrano vivi
e li vorresti pescare.
E poi c’è il mio cuore
che approda alle secche
e non può più tornare
e mai che nell’acqua
io mi senta abbracciare…
Tutti questi litri
di liquido amniotico
riversati nel mare
di sogni agitati…
Io ti desidero, madre,
e ti riconosco
e ogni notte ritorno,
ritorno e mi immergo
e comincio a nuotare,
ma da sempre è fatica
e paura e freddo piacere.
È questo che provo
spezzando l’onda scura
del mistero abissale.
Perché mi respingi,
carissima madre?
O forse mi ami a tal punto
da allontanare da me
il meriggio fatale
(già il sole al tramonto
mi acceca lo sguardo)
e impedirmi di andare?
Non riesco a guardare
con tutti e due gli occhi
nella tenebra fitta
che è chiara ai profeti.
Se anche potessi,
non voglio sapere
né i tempi, né i modi
del mio compimento,
così mi trastullo
con questa mia sciarpa
di fili di ore
tessuta dai giorni
e sbircio soltanto
con lo sguardo da guercia
alle soglie del tempo,
carpisco segreti
alla voce del cuore
che batte più stanco…
E poi, dopo giorni
veramente duri,
caro vicino,
col piccolo cane
con cui passeggi
la tua solitudine
sui freschi viali
di una città di mare,
il mattino,
caro vicino,
mi arrivi tu,
col tuo sorriso
sempre più disilluso
e, ben informato
su tutti i miei mali,
mi consegni così.,
fra la fretta di strada,
il marciapiede,
e la cristallizzazione
della portiera dell’auto
che già si chiude,
perché me ne vado,
mi consegni così,
col tuo sguardo
disarmante disarmato
annacquato,
la voglia e il motivo
per trovare un sorriso:
“Si vogli bene, mia cara!”
e riguadagni la porta di casa.
Io mi gioco i giorni
e perdo, perdo sempre.
Non sono un bravo baro,
non c’è mano in cui finga,
però non mi diverto
e perdo, perdo, perdo.
Mi tradisce lo sguardo,
la noia che mi prende
e quella voglia matta
di gettare le carte,
scoprire gli intenti,
mandare all’aria tutto
e ridere degli altri,
frantumarne le facce,
le facce di marmo…
Il mio animale?
Sempre stata la tigre
per la faccia beffarda,
per lo sguardo che irride
e per gli occhi a fessura
che non hanno paura,
col ruggito potente
e il coraggio che preme.
Col passare degli anni
io non sono diventata
una fiera spelacchiata
tristemente anziana
che vaga da sola nella savana…
Sono sempre stata buona,
con la zampa disarmata
e l’artiglio retratto
come quello di un gattino
nel cuscino del perdono,
ma, potente e ben nutrita,
il mio olfatto è ancora buono,
la mia vista vi perfora
miei nemici spudorati,
che attentate alla mia tana!
Voglio sedermi qui,
vicino al tramonto,
guardare il sole
che tinge la stanza
con un pennello
sempre più nero.
Voglio inseguirlo
sul colmo dei tetti,
la posta, la banca,
la torre del duomo,
lo sguardo trafitto
dall’oro dei passi,
scoprire la porta
della sua casa.
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