Mi ricordo giganti di sassi,
una terribile arsura,
nessuna gioia la meta
e un brutto ritorno a fatica.
Tutto ebbe inizio quel giorno,
da là io continuo a cadere
verso il fondo del tristo finire.
Mi ricordo giganti di sassi,
una terribile arsura,
nessuna gioia la meta
e un brutto ritorno a fatica.
Tutto ebbe inizio quel giorno,
da là io continuo a cadere
verso il fondo del tristo finire.
A passi di viandante
il tempo se ne va.
Stivali di lancette
picchettano il quadrante,
congenita zoppìa
divide in passettini
il giro dei destini.
Tic tac tic tac tic tac,
sempre lo stesso ritmo,
dipende dalla meta
quanto sia svelto o lento…
Escherianamente estenuata
dalle false prospettive
delle scale e delle loro ombre
che divorano la meta. Non s’arriva,
non si torna, non si sale,
non si scende. Fatica per niente.
E non sarebbe niente
se, dopo aver lasciato
nella casa poco amata
tutti gli orologi che avevo,
anche la vecchia pendola,
almeno si fosse fermato il tempo,
che batte ancora col suo morto cuore,
spaventosamente.
Seppelliti i cadaveri dei ricordi,
uccisi i mobili del primo novecento
e i loro tarli, senza mai più bandire
lo sfrontato sole, salendo al piano
quarto della casa nuova
con un bell’ascensore,
mi porto il buio e quelle rampe
dentro. Non salgo, non scendo
e in questo doloroso passatempo
spreco infinitamente il tempo.
Quella sera sul mio notes
disegnasti per me
un cavallino, il silenzio
di un nitrito lontano,
in tre tratti un ritratto.
Le certezze sprezzanti
della nostra gioventù
che ci consumò presto,
la vita che, galoppando,
ci portò qui, dove siamo,
vicini alla meta,
tenendoci per mano.
Tu, nell’inquieta notte,
sognando di lottare,
agiti le mani in aria
e io te le imprigiono
e penso a Don Chisciotte,
l’eroe dei sognatori.
Poi cerco il sonno invano,
perduta la mia strada
fra giochi di parole
e trucchi per dormire,
le rime, gli anagrammi,
ogni follia palindroma
e i volti dei miei morti
che vogliono apparire.
Così si fa mattina
e torna il grigio nero
a disegnare il cielo,
un giorno nuvoloso,
malgrado te, che canti
e vuoi portarmi al mare.
E allora andiamo, amore!
Corriamo la domenica
su strade meno amare
con il perpetuo ansito
dell’asma esistenziale,
un fuoco sotto cenere
che crepita nel cuore:
Qualunque sia la meta,
dobbiamo ritornare.
Graziosa foschia
di una terrazza a tasca
che cerca luce
fra le tegole smosse,
emblema di speranza,
il nord che non si arrende…
Amami adesso,
in quest’alba di gesso
che trattiene la notte
sull’ali cinerine,
amami, mio vecchio,
sul letto claustrale
che geme astinenza
dalle durissime molle,
rinnova le nozze
di Filemone e Bauci
nell’infausta pianura
dei giorni più freddi…
È un hotel di passaggio,
un’ incrocio di strade,
il tempo, l’amore,
la meta, l’andare…
E poi quella strada strana
tutta coperta d’acqua…
Ho le gambe sommerse
il terrore di cadere
e la pace nel cuore.
Benché aneli la meta
e forse sia attesa
su una soglia di casa
e guidata per strada
dai passi di un uomo
che cammina più avanti
assieme a un bambino,
decido di tornare.
Manca poco al tramonto
e lo splendido cielo
invade i canali colando
il suo oro, il suo rosso
e il sogno d’immenso.
Ritrovare la strada
ora è l’unico scopo.
Alzo gli occhi al cielo,
sola, vedo l’ultimo sole
e ancora una volta io spero.
A tutti i miei lettori auguro un buon solstizio d’inverno, una serena notte , per quanto lunga sia, e un ottimo inverno! Se vi va di leggere tre righe in proposito, cliccate qui
Ho un carico di sonno
e lo porto in bilico
sopra la testa
e mi pesa e mi pesa
verso la fronte
così che pian piano
mi fa chiudere gli occhi.
Però non si può,
dormire, dicevo,
perché è fuori orario,
e così non si fa.
Mi riaccomodo il cercine
d’intrecciata pazienza,
sterpi e lembi di sogni,
poi la grande stanchezza,
in perfetto equilibrio,
per non farla cadere
e, aspettando la notte,
mi rimetto in cammino,
con il collo ben dritto,
a sbirciare la meta,
oltre un monte lontano…
Mentre mi annoio
provo rimpianto
per le ore perdute
che, se le sommo,
fanno i miei anni.
Ore di tedio,
che oggi detesto,
che implorerò in cambio
del negato domani,
alla meta del viaggio,
né mai torneranno.
Il vischioso languore
dell’estivo imbrunire,
i rumori guardinghi
di questo sobborgo
ambìto da molti
e cha a me sa di tomba,
nonostante il mare,
i confini della strada,
il muro in mattoni
della casa di fronte
che tinge di rosso
i miei falsi tramonti,
il cancello, la palma,
le mezze parole:
tutto questo mio male,
calcinaccio in rovina
di un crollo morale,
varrà quanto l’oro
se, in fondo al respiro,
non troverò il fiato
di un nuovo minuto
per potermi annoiare.
Così vicina all’inverno,
cavalco il libeccio senza sella
aggrappandomi ai crini,
giù per le valli ombrose
del destino,
senza sosta né meta,
sempre cantando.
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