Sembrano mani
queste alghe palustri,
giochi di bambino
in un bianco lavandino,
baluginando a sera
ricordi e proiezioni
di ombre del passato
a assorbimento lento,
un filtro di memoria
in questo gran silenzio.
Sembrano mani
queste alghe palustri,
giochi di bambino
in un bianco lavandino,
baluginando a sera
ricordi e proiezioni
di ombre del passato
a assorbimento lento,
un filtro di memoria
in questo gran silenzio.
Quiete satellitare
nel mio freddo andare
e polvere cosmica
nello spazio interstellare.
Spargerete, o numi,
grani della mia memoria
nella coscienza universale!
Così che io resti
anche senza sapere.
Mi basterà fondermi,
quando sarà,
con l’essere astrale.
Soltanto col viso mia madre
riemerge per affioramento
dal mare dell’oblio lento
rotto dalle onde nel vento
di costanti alisei di memoria.
Ogni sera la posso vedere
tetra falena delle lande dei morti
ma così presente al mio cuore
da poterle ancora parlare…
Lui è tornato,
il trombettista stonato
di besame mucho,
e ha ampliato il repertorio,
dopo un mese e passa
in cui era sparito.
Suona all’angolo di casa mia,
stasera a quest’ora,
che, col fuso orario
di questa mia città
indolente da sempre,
è l’ora dell’aperitivo
e non ci sono santi.
Chi allatta, allatta al bar
e c’è un asilo nido
sotto il tendone rosso
al freddo di novembre
ed è pure strappato.
Come il musicista
sgangherato
rattoppa brani alla rinfusa,
pescando fra i buchi
della memoria ubriaca,
così fa l’anima guasta
e cerca nel passato
qualcosa di diverso
dal dolore
e non lo trova.
E suona quasi a morto
la campana della chiesa,
ma non potrebbe
adeguarsi, dico io,
a questa nostra volontà
disperata di sperare,
adeguarsi al nostro ritmo
e festeggiare?
Bianco di foglio
briciole di gomma
da matita, un segno
o un sogno, forse,
cancellato. Un solco
nella memoria e pare
tutto dimenticato,
ma la ferita abrasa
resta nella trama
troppo sottile,
lesione dell’anima,
trasparenza esangue
del dolore.
Non ti segue a casa
è in giro con la sua gente,
tu sdraiata sul letto
col tuo cellulare,
la memoria del cuore.
È per te la tua roba,
come quella maglietta
che ti ha dato una sera,
solo un piccolo straccio,
ma ci senti l’odore
e la stringi sul petto
un pò per farlo tornare…
Ma lo sai, vero, piccola,
dove vanno a finire
certe storie d’amore…
Prima che il Libeccio
proprio ti uccida
fustigando di sabbia
la tua rorida schiusa,
ad un caldo sacello
nella casa festosa
e allo sguardo pietoso
di chi tanto ti ammira
concedimi, o rosa,
d’immolarti recisa
e, se fosse un pittore
chi di sguardi ti onora,
alla lunga memoria
che le tele colora.
Trascinare al di là della chiusa
la memoria di sé, della vita
saltando con bianco fragore
l’ultimo respiro a fatica
al di là finalmente del tempo
e tutto l’Universo capire…
…Io, se potessi,
non sarei l’acqua
che scivola via
e nemmeno la trota
così lontana
dai quieti natali
di qualche pescaia…
Io sarei l’ombra,
la fronda pensosa
di ogni memoria
e porterei in seno
ogni ghiaccio, ogni onda,
ogni sasso, ogni passo,
ogni tiepido masso
alla valle sublime
del tempo mio estremo.
piccole pietre di sale
la memoria del mare,
evaporate vele
di viaggi e di mondi
esplorati e ritorni
mancati.
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