Finestra delle quattro e trentadue
con quell’albero grosso
e la mia voglia di dormire,
silenzio ospedaliero
e luce artificiale,
l’artiglio della morte
addormentato,
l’ossigeno che va
per l’albeggiare…
Finestra delle quattro e trentadue
con quell’albero grosso
e la mia voglia di dormire,
silenzio ospedaliero
e luce artificiale,
l’artiglio della morte
addormentato,
l’ossigeno che va
per l’albeggiare…
Intrappolata fra le tue forti braccia
giaccio supina
senza poter dormire,
persa in un sogno
che sa di castagnaccio
e fili di lana bianca
fra i miei capelli mossi.
Ho i fianchi larghi,
la pelle tesa e secca,
sono una donna finalmente,
forse m’è nato un gatto,
un cane, o un tiepido pulcino
mentre mi ride dentro forte
la storia di un bambino.
E l’impiantito dei sogni
mi scorre sotto i piedi
così gentile, denso e lento…
L’immenso ovile
del venerdì pomeriggio…
Rincasano i greggi
belanti tormenti,
ma in fondo contenti.
Scappando dal morbo
hanno in molti imparato
a dormire, soltanto,
per divertimento,
lasciando ad altri giorni
e a più stupidi armenti
la transumanza forzata
dell’outlet con spesa.
E lanugini in volo
da finestre socchiuse,
che si posano piano
sul prato invernale,
confondendo fra il vello
sogni puri bambini
fra la neve dormienti
e una pace più umana
tu potresti trovare,
Dafni, antico pastore…
Alla periferia della notte
una sera stanca e delusa
si trascina fra cenci di luce
seminando coi colpi di tosse
la fatica, gli errori, i rimpianti.
Si rannicchia in un angolo buio
anelando soltanto dormire.
Sarà questo, dunque, l’autunno?
Un’eroica agonia senza sogni?
Senza stelle, né luna, né amore?
Non temere il lupo!
Qui il lupo non c’è
e non c’è pericolo!
Tu puoi solo chiudere gli occhi
per vederlo nei tuoi desideri.
Se però vuoi correre il rischio
e persino morire,
sufficiente è dormire.
Di solito viene
vestito dei fiocchi di neve
di un gelido inverno
coi denti scoperti
per ferire e incidere
i tegumenti dei perdenti.
Per te è bello come uno sposo,
ipnotici gli occhi rossi,
gentile è il suo sorriso.
Con lui vorresti fuggire
e ti offri per sempre,
gli doni il collo innocente,
…Certe volte finiscon così
esistenze insulse
in cui non succede niente:
Con morti indolori
e tempi eterni divertenti.
Dedico questa poesia all’amica Elettasenso, autrice del pregevole blog “inchiostronerodenso” che, con sua rubrica “il gioco del lunedì” stimola e ispira la mia creatività.
Pandemia
Endemicamente fiorisce
questa malinconia dolorosa.
Quasi bella, sboccia come una rosa
da radici di neve e sangue e spine,
dovunque tu voglia,
anche ai margini di una rotatoria.
Ed è contagiosa. Si sparge
con questi sospiri bronchiali,
alveolari, ali di pensieri, e vola
sotto forma di spora. O samara,
leggera come fosse primavera.
Appassisce un anno intero
nella mente, nel cuore.
S’ arrossa la congiuntiva,
essudando rimpianto, paura,
attesa e speranza, forse,
di vita futura migliore
da quel piccolo foro ai lati
dell’occhio caruncolare,
rosa rossa del male.
Le lacrime sono il vettore.
E diventa pandemia questo lutto
cocente da fine imminente
di un anno di vita, la nostra,
condotto assai mediocremente.
Infetti
Noi siamo umorali,
leggermente lebbrosi
e un po’ contagiosi.
Per buoni motivi,
che noi comprendiamo,
parenti ed amici
si mostrano schivi.
Così siamo soli,
ma, pieni d’amore,
a tutti auguriamo:
“Buon anno, brindiamo!”
La rotatoria
Alla rotatoria c’è un posto
dove andremo a mangiare
e, se tu vorrai, resteremo a dormire.
Non è che ti chieda di fare all’amore,
soltanto brindare, mangiare, gioire.
Se poi tutto questo ti farà innamorare,
allora saprò come farti godere.
Sarà il buon inizio di una storia importante,
oppure la fine di un anno normale.
A tutti gli amici che mi seguono un sincero ringraziamento per essermi stati sempre così vicini e avermi dato con il loro sostegno la voglia e l’entusiasmo necessari per condividere qui pensieri e emozioni. Auguro a loro e a chiunque passi di qui un sereno anno nuovo in cui possano realizzare le proprie speranze, i sogni segreti, le loro aspirazioni.
Credevo che la città
si risvegliasse presto
per farmi compagnia,
scamparmi dal silenzio,
invece se la dorme
malgrado me che vago
in cerca di un caffè,
quassù, nella cucina.
Tutto comincia dopo,
gli uffici sono chiusi,
anche la scuola è buia,
la gente arriva tardi,
non sosterà nessuno,
tutti di corsa e via…
Parlami tu, città,
ansando lavastrade
e autobus sbuffanti,
guarda verso il terrazzo,
convincimi a restare,
a non sentirmi sola,
con le trombe di Eustachio
beanti sul rumore
del mio perpetua affanno,
il battito del cuore.
Ho un carico di sonno
e lo porto in bilico
sopra la testa
e mi pesa e mi pesa
verso la fronte
così che pian piano
mi fa chiudere gli occhi.
Però non si può,
dormire, dicevo,
perché è fuori orario,
e così non si fa.
Mi riaccomodo il cercine
d’intrecciata pazienza,
sterpi e lembi di sogni,
poi la grande stanchezza,
in perfetto equilibrio,
per non farla cadere
e, aspettando la notte,
mi rimetto in cammino,
con il collo ben dritto,
a sbirciare la meta,
oltre un monte lontano…
La notte già svuota
i suoi lunghi intestini,
budelli intricati
di strade, destini,
di cieche appendici,
di vite sfinite.
Spegne le insegne
anche l’ultimo bar,
quello più in fondo,
quello che giri l’angolo
e poi vedi il mare,
tu sai quale,
proteso sul buio
come la prua
di una nave
pronta a salpare,
con la polena dipinta,
che porta corona,
corona di luna.
E io non so dove andare.
Mi ha buttato fuori
quel ragazzo gentile,
ma alto due metri,
che non è il caso
di litigare.
Riapre alle sei
e prepara i panini
per la gente normale,
che smonta dai turni
o va a lavorare
e vuole mangiare.
A chi lo dico, io, adesso,
che odio il mio letto,
che sembra una bara,
un sepolcro di ghiaccio
da quando è finita
quell’unica cosa
che mi dava la vita,
a chi lo racconto
che non voglio dormire
perché se la sogno
io posso morire?
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