Lame di cielo invernale
così ben affilate
da provocare dolore
confitte dagli occhi
nel cuore. Stalattiti
di ghiaccio scendendo
in logorio di gocce di pianto
troveranno infine la pace
trapassando il terreno,
il manto glaciale, il silenzio.
Lame di cielo invernale
così ben affilate
da provocare dolore
confitte dagli occhi
nel cuore. Stalattiti
di ghiaccio scendendo
in logorio di gocce di pianto
troveranno infine la pace
trapassando il terreno,
il manto glaciale, il silenzio.
Inerme quasi rotto il cuore
patente sui liquami dell’ora
fa imbibire le sue crepe di creta
dal grigiore ostinato del tempo,
un novembre di cracule e corvi
che fu avaro di cielo e di sole.
E così si consuma la sera,
non diversa dall’inizio del giorno,
con le sue suggestioni angolari.
Con le vesti ormai lacere d’ansia
verso spigoli acuti di muri
si suicida in eterno ritorno
il divino che c’è nel dolore
senza mai lasciarmi morire.
E mi frullano dentro gli aironi
quando grigi nel grigio dei nembi
dal canale spiccano il volo.
Non palude, non mare, non fiume,
una vena nel tempo, il pensiero.
impasto con le mani
avvezze a fare. Ore
di forzata coercizione,
punizione esistenziale.
Lame nei polpacci
di incredulo dolore
e i cuscini a soffocarlo
sul divano esposto al sole.
Corpo inerte,
decontestualizzato,
come un decoupage
estratto da un bel quadro
e incollato sul niente.
Vascello alla deriva
nel mare delle ore lente.
Tu che rientri a casa,
roseo d’aria e di sole,
senti il sabato vicino
e racconti i tuoi progetti…
“Io domani ti farò i frollìni”
rispondo non a tono,
devo sembrarti matta,
ma mi posi un bacio
sulla guancia affranta,
sussurrando a fior di labbra
“Non importa amore!”
Una mano di grigio,
una vernice invecchiata,
un craquelè sull’estate,
ecco quel che resta
di una bella giornata.
Anche il cuore, nel petto,
porta segni di tigna,
lentamente corroso
più che dal dolore
da un’indicibile noia.
So come ti senti.
Stai come me quando sogno,
o come Alice,
ma in un altro paese.
Questo continuo andare
da un posto all’altro
senza capire dove siamo,
di corridoio in corridoio,
o per le scale,
quando le scale non ci sono…
Con la mente che oscilla
come fosse una molla,
o una palla che salta
e poi si incolla in alto,
senza rimbalzare.
Anche del corpo
non ci si può fidare:
A volte è lungo e stretto,
a volte corto e molle,
tutto trafitto dal dolore,
che però serve per capire
dov’è la mano e dove il piede
e continuiamo a camminare…
Voglio dipingere
un’aurora infuocata astratta
com’è dentro il mio cuore,
colante lava densa scura
sulla vena fusa del dolore
ed il suo vano andare
verso il seno amaro grande
e il mugghiar del mare.
Gloria e rovina e amore,
rocce in autocombustione,
lembi di cielo nero e oro,
trionfo ed abiezione,
una pianeta viola stesa
in aria, gran celebrazione,
morte, oblio, resurrezione.
Oggi è una giornata difficile,
mi mangia via il cuore.
Come un tilacino estinto
erro le praterie del dolore,
foglia su foglia
l’amaro eucalipto
celando il mio andare.
Quella che fui non sono,
orme di me spariscono,
non mi cercate, è vano…
Nemmeno mi conosco,
né so s’io voglio ancora
nutrire le mie spoglie,
che ancora mi resistono,
di pianto e di rimpianto.
Io fui, non vita è questa,
non genero, non amo…
Non ho voglia
di essere felice
con questo tempo
che va
nella voragine del nulla
secondo su secondo
precipitando. Diffondo
il taedium vitae tremendo
in giro per i bar
direttamente dal cuore
il fiato del mio male
alitando.
Scellerato perlage
gustando
di routine e dolore,
l’amaro nel fondo
tutto da esplorare,
la rotondità della sfida,
la fierezza dei negletti,
la resilienza, la libertà.
Inadeguato pulcino
di uno stormo che vola
cado giù, a conoscere il suolo,
sparpagliando le piume
sopra un pugno di fragili ossa
e la fossa sembra il male minore,
che mi accoglie e distoglie
dall’emorragia di dolore
e l’autunno così rosso di foglie
pare un cuore che accoglie,
così giallo e arancio di foglie
pare un letto caldo di sole.
Recentemente ho capito
per illuminazione
perché certi sogni,
in apparenza banali,
fossero fonti
di grande paura,
da svegliarmi sudata,
con la gola essiccata…
Io sogno case buie
con lunghi corridoi
e camere con molti letti
dove passare la notte
e ci sono i vivi come me,
perché ancora io lo sono,
e ci sono i miei morti
che stanno a riposare.
Facciamo tutti silenzio,
mi sdraio, spengo la luce
e mi desto prima di morire.
…Sono ricordi degli obitori
dove con grande dolore
ho visto per l’ultima volta
quelli che ho molto amato
e che non ho lasciato andare.
Specialmente mia madre,
quando sono scappata,
appena un attimo prima
che chiudessero la bara.
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