Mi sto lasciando andare
a questo senso di febbre
senza più lottare. Sto male,
dolore fisico e morale. Insonnia
trasversale. Testa di legno, cuore
che brucia sulla pira lustrale
della mia inutile vita larvale.
Mi sto lasciando andare
a questo senso di febbre
senza più lottare. Sto male,
dolore fisico e morale. Insonnia
trasversale. Testa di legno, cuore
che brucia sulla pira lustrale
della mia inutile vita larvale.
L’alba tarda
in cucina
ogni giorno di più.
Mi fa male al cuore
aprire le tende
e non vederla più,
al suo posto la notte
è sdraiata sui tetti.
Fra sei minuti, lo so,
alle sette e zero sei,
ritornerebbe,
e il sole con lei,
se però non piovesse
nel grigio uniforme
di un cielo irreale.
Fra poche ore
sarà l’equinozio,
il tempo si adegua
e rotola il tuono,
come se fosse
campana del duomo.
Durerà il giorno
quel tanto che deve,
dodici ore o poco di più.
C’è un mesto colore,
il piombo d’autunno
e mesto è l’odore
di marcio del tiglio
e poi da domani
il giorno si scorcia,
Persefone sposa
va sempre più giù…
Auguro a tutti un felicissimo Autunno!
Come una soglioletta
sul fondo dell’abisso
su di te mi appiattisco,
compagno serale.
Vivo un amore
molecolare,
corpo su corpo,
pelle su pelle,
cuore su cuore
in un solo respiro,
quello del mare.
Addio borgo
d’un’estate strana
strappata a un corpo
poco accomodante,
addio vacanza
delirante, addio scala
di una fatica esibita
alla curiosità impietosa
della gente, addio mare
che lavavi l’amaro
con il sale, addio sole,
addio cigolio tremolante
del sartiame del mio cuore
così felice, in fondo,
di salpare.
Nota: Ho illustrato questa mia poesia con uno sketch di Riccardo Scarpellini
Colpa di chi, ì, ì
se sento quest’eco,
se penso a un bel sogno?
Volevo soltanto
una pausa ai miei giorni
e poi ritornare,
con gli occhi di mare
e la pelle dorata,
già pronta a espiare.
E adesso non so
se vorrò più partire,
gravata nel cuore
dai vostri presagi,
la schiena già curva
di danni e di anni
e le vostre radici
a farmi inciampare
sul sentiero del dubbio,
tortuoso e straniero.
Grazie, ma grazie,
amici solerti,
per cui la speranza
è fonte di danno!
Affidatemi dunque
a medici esperti
con l’autoptico ghigno
già chino sul cancro
dell’estremo sconforto
di chi è già morto dentro!
Nota: L’immagine che ho scelto per illustrare questa mia poesia è un acquerello di Riccardo Scarpellini, che mi è sembrato particolarmente adatto ad esprimere lo sgomento di un’ anima tormentata.
Ero bella, malata,
bianca, splendente,
quando segretamente
caddi innamorata.
di un uomo assai più grande.
Fu allor che mia sorella
prese a desiderare
un cane ardentemente.
Mia madre lo negava,
mio padre, conciliante,
fece apparire in casa
quattro pappagallini
Non fu la stessa cosa.
Li nutrivamo a turno
con semi piccolini.
Quei carcerati, alati,
di certo disperati
mai vollero cantare.
Vicino alla finestra,
al di qua della gabbia,
anch’io guardavo il cielo,
fingendomi in prigione
e forse già lo ero,
languendo di dolore
invece di volare.
Dei poveri uccellini,
ci fu chi prese un male
e non potè guarire,
chi, coraggiosamente,
prese la via del sole,
non volle più tornare.
Romeo rimase solo
e prese a gorgheggiare
per un intero giorno
e poi morì d’amore.
Io, molto lentamente,
volli dimenticare,
piano guarì il mio corpo,
e, mai del tutto, il cuore.
Ora son qui che vivo
e vivo gorgheggiando.
Pur se mi urge
la poesia nel cuore,
ife di un fungo bianco
mi legano la gola
e annodano il bel canto
che esce gorgogliando
di rantoli bronchiali.
Chi mi ha reso muta?
Forse il cielo grigio denso
o forse questi tempi
che celano i sorrisi e la paura
con l’obbligo di maschere
e distanze, rendendomi
difficile sperare?
Ci sono certe ore
che hanno il grigio dentro
pur esplodendo di colore.
Come adesso che incalza
l’inizio del tramonto
e mi dilania il cuore
il sogno mio tradito
di correre sul mare.
E dopo sarà tardi,
come succede sempre,
da molti, troppi giorni
e riderà di me la luna
correndo sulla sabbia,
spargendo inutilmente
un manto di splendore.
Non mi marcisce il cuore
in questa fredda attesa.
Come nella torbiera,
qualcosa è fossile,
qualcosa nasce,
qualcosa muore…
Quando sognavo l’Islanda,
ispirata dal ghiaccio e dal fuoco,
ero soprano e usignolo
ricamando spartiti di note
così alte da far sanguinare
i più puri, rompendogli il cuore,
morire felici, rinascere ancora…
Ma ora, che il nulla ci incalza,
oscurando ogni giorno il futuro,
ora, che Dio c’è lontano,
e la mente fatica a adorarlo
e a crederlo il buono fra i buoni,
or che il ruscello è palude
e marciscono fiori di neve
sotto i passi incerti, smarriti
di un primavera di tisi,
ora che le messi future,
abbattute a colpi di falce
reclinano i capi delusi,
lontani da padre e da madre,
rapinati di ciò che era certo,
giovinezza, vita, bellezza,
senza conoscere amore
e papaveri e risa e l’estate,
ora non canto, non spero, non rido,
soltanto aspetto e sospiro.
Oh, com’è lontana l’Islanda,
com’è lontano il bel canto,
or che non posso sognare!
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