
Avevo una bambola,
si chiamava Cristina.
Era bionda, aggraziata,
non ancora una donna
e non più una bambina.
Lei soffriva da sempre
di fragilità d’ossa,
non per qualche mia colpa,
ma per troppa finezza
del suo latteo biscuit.
La facemmo ballare
col suo roseo vestito
e conobbe l’amore,
sempre più dilaniata
da implacabile male.
Frantumato il bacino,
corse al pronto soccorso
sul carrello tv.
Interventi alle gambe,
fasciature di scotch.
Gli ondulati capelli,
ora simili a stoppa,
le cadevano a ciocche,
a mostrare lo sclapo,
cencio verde segnato
da corone di buchi
ed il suo fidanzato,
spaventato, fuggì.
Stava solo sdraiata,
ancor dolce nel viso,
capo e corpo occultati
da finissimi lini
rubacchiati al corredo
dalla nostra pietà.
Rinunciammo a un guanciale
per lasciarla dormire.
La andavamo a trovare
nel suo strano ospedale,
un ripiano d’armadio,
dietro all’ampia specchiera.
Era troppo lo strazio
nel vederla così.
Supplicai mia sorella
che potesse morire,
con il prete, i bei canti
ed un gran funerale.
L’amavamo, ci amava,
dopotutto era viva
e il coraggio mancò.
Ogni giorno di più
lei si mise a pregare,
sublimando il dolore
in crescente virtù.
Col bel cranio rasato
(dal suo capo perfetto
fu staccato lo straccio)
con la mia sottogonna
come candido saio,
entrò un giorno in clausura,
prese i voti, fu suora.
Non sapemmo più nulla,
non potemmo parlarle,
né vederla mai più.
Molto tempo è passato,
ma ogni tanto mi chiedo:
“Chissà quanti mai anni
ha vissuto in cantina,
la mia amata, la bella,
l’inviolata Cristina”?
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