Ecco che piove, infine.
Forse ci farà bene.
Intanto, qua fuori,
il tavolo deserto
offre il suo grembo
al pianto del cielo.
Nudità del dolore,
grande silenzio
di cani, passeri
e poveri umani.
Lontano, col vento
l’urlo grigio del mare…
Ecco che piove, infine.
Forse ci farà bene.
Intanto, qua fuori,
il tavolo deserto
offre il suo grembo
al pianto del cielo.
Nudità del dolore,
grande silenzio
di cani, passeri
e poveri umani.
Lontano, col vento
l’urlo grigio del mare…
Oggi possiamo dirglielo,
a ’sto destino infame,
che noi non ci crediamo
che faccia tutto lui.
È solo un vagabondo,
che vive di espedienti
ben spesso millantando
poteri che non ha,
proprio come quei cani
che abbaiano fintando,
finché rimane chiuso
il cancello che protegge
la loro coda bassa,
un segno biasimevole
di squallida viltà.
Crediamo appena al fatto
che l’esser messi al mondo
non sia soltanto un dono,
ma anche un forte rischio
di non provare gioie,
amori, feste e fasti,
ma stenti ed abbandono
e che per tutti quanti,
che siano re o bastardi,
la fine della strada
venga segnata sempre
dal marmo statuario,
o quello di Carrara,
o altra pietra o sasso
di bassa qualità.
Perciò, caro destino,
noi ce ne andiam cantando,
finché la voce in gola
non muore di stanchezza
e poi ricominciamo.
Giochiamo come bari,
vogliamo prender tutto
e farlo tutti i giorni,
o meglio a tutte l’ore.
Noi non ti lasceremo
tutti quei tempi morti
che l’ansia e la paura
sottraggono alla vita.
Noi siamo dei ribaldi,
pirati e masnadieri,
disposti a bere tutto,
purché ci sbronzi bene.
Ti sputeremo addosso
dall’alto eroico poggio,
che è anche il nostro abisso,
finché ce ne sarà…
Le poesie che nel sonno
spargo come ossi per cani,
e la notte affamata divora,
all’alba non tornano più.
Radi lembi di nebbia
funestano ancora la stanza,
allungo dal letto le mani
le ritiro trafitte di stelle,
piccole ustioni di sogni
che non si decifrano più.
Stanotte ho sognato un sabba
in un posto che conosco
e che non dico.
Io ci sono andata,
in ciabatte,
io mortale, senza invito
per spiare.
C’erano streghe
brutte e belle
tutte avevano il cappello
nero, e che cappello!
Una parlava
e istruiva le altre.
C’erano asini e cani
i cani a mancina,
gli asini a destra,
tutti a zampe giunte,
comandati a pregare.
Poi me ne volevo andare,
ma una turba
di giovani accoliti
mi faceva ressa
e non mi lasciava passare
e diavoli infanti
mi si avvinghiavano
alle gambe stanche
e io li staccavo
e si squartavano in pezzi,
forse per rabbia,
o per punizione.
Prova e riprova,
sono fuggita,
mi sono svegliata
e ero tutta sudata.
Di poesie che per pigrizia
lascio come ossi per cani
che la notte vorace divori
giacciono i resti già rosi.
Radi lembi di nebbia
funestano ancora la stanza
allungo dal letto le mani
le ritiro trafitte di stelle,
piccole ustioni di sogni
che non si decifrano più.
Commenti recenti