Braccia ospedaliere
si dibattono
con i loro strani fiori
peduncolati in cannule
ovari i di coaguli
epidermici plissè
di petali. E musica
di flebo trombolitica
festini di prelievi
per orge fra cadaveri
in albe un po’ drammatiche…
Braccia ospedaliere
si dibattono
con i loro strani fiori
peduncolati in cannule
ovari i di coaguli
epidermici plissè
di petali. E musica
di flebo trombolitica
festini di prelievi
per orge fra cadaveri
in albe un po’ drammatiche…
Intrappolata fra le tue forti braccia
giaccio supina
senza poter dormire,
persa in un sogno
che sa di castagnaccio
e fili di lana bianca
fra i miei capelli mossi.
Ho i fianchi larghi,
la pelle tesa e secca,
sono una donna finalmente,
forse m’è nato un gatto,
un cane, o un tiepido pulcino
mentre mi ride dentro forte
la storia di un bambino.
E l’impiantito dei sogni
mi scorre sotto i piedi
così gentile, denso e lento…
Continuerà il sole il suo lento cammino
inesorabilmente verso l’ occaso
dietro la piazza, prendendo, non visto,
la strada del mare. Io lo so bene,
però non lo scorgo dalla terrazza
all’ultimo piano di questo quartiere.
Vicino al cantiere, all’inizio del viale,
c’è un piccolo approdo di scogli e di rena.
Prenderà la sua barca, nascosta a ridosso
di tamerici e palme straniere.
Remando, remando, tingerà l’acqua
del mistico oro delle sue braccia.
A mille remate dalla Bellana,
si tufferà svelto, levandosi il manto
di porpora fine, gettando uno sguardo,
velato di verde, al mondo serale.
E, inabissato in un luogo profondo,
sprofonderà nel suo sonno regale.
Perché non dormi ancora?
Perché quando chiudo gli occhi
vedo pozze azzurre e foglie di palma.
Perché nel buio mi sento sfiorare
da persone. Tante. Come se tutti
dovessimo passare dallo stesso
varco stretto. E i loro fiati addosso.
Perché il mio corpo è dismorfico
nel letto. Ho la testa grossa e braccia
e gambe di gomma molto lunghe.
Perché la volta della stanza si estende
in una cupola infinitamente grande.
Perché mi si spacca la fronte di netto
e mi esce fuori la mente e si espande
in un vasto universo creato dal niente.
Nel cerchio delle tue braccia
c’è l’universo immenso.
Io ci sono dentro e splendo,
stella d’amore eterno.
Lo sfondo della mia immagine è una splendida e famosa foto dell’universo profondo,che abbiamo grazie al telescopio Hubble, prodigioso occhio aperto sul cosmo.
Pover Berta solitaria!
Ho urlato e pianto
spiccando selci dalle pietre
sporcando mare e litorale
col mio strano canto,
un po’ vagito in culla
un po’ roco rimpianto,
ah quanto forte, quanto vano!
Sola sulla scogliera
col destino accanto
e davvero nessuno
a sostenere il mio volo
come un benefico vento
a gonfiare le piume…
Mi rifugerò questa notte
fra le aguzze braccia
di silenti rocce,
caritatevoli orecchie
del tempo che non ode,
ma scava e frantuma
queste miserie umane.
Eccolo, è lui…
Da un muro all’altro
si lancia di notte
zigzagando la strada
per provocarsi tormento
e poter ululare.
Io lo conosco bene,
il vento,
ha sulle spalle
un mantello pesante
che spazza l’asfalto
e tutto raccoglie,
barattoli, carte, foglie
conglomerati di sporca
disperazione.
E grida il suo pianto
sibilando serpenti,
percuotendosi il petto
fino farlo suonare.
Corre impetuoso
nella gola di case,
un battito forte
di stanchi stivali,
poi apre le braccia
e riprende a volare.
Gabbie di gabbiani appese al cielo.
Gabbie di gabbiani ammarano
sulla cresposità dell’onda.
Sono prigionieri!
Lo senti come piangono?
Il loro grido evade
la circolarità di fiamma
dell’orizzonte all’alba.
Lo senti come piangono?
Il loro grido lima
la nebbiosa finestra
del mio sonno incostante.
Sono prigioniera!
Il risveglio umiliato
dai sudori notturni
ed i polsi costretti
dentro i ceppi dell’ansia…
I polpacci formicolano
per la voglia di andare,
le braccia si spalancano
nella mimesi del volo.
Inerte agonia isometrica
la consapevolezza del Fato!
Ogni orizzonte inscatolato
da un cielo più lontano…
Lo senti come piangono?
L’infinità senza senso
ha ingabbiato i gabbiani.
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