Mi sono stonata proprio a buon prezzo
un aperitivo in un infimo bar
dove non becchi che due patatine
e resti digiuno e pronto a fluttuare
tra sogni e speranze e sfondo di mare.
Mi sono stonata proprio a buon prezzo
un aperitivo in un infimo bar
dove non becchi che due patatine
e resti digiuno e pronto a fluttuare
tra sogni e speranze e sfondo di mare.
Uno sguardo al bicchiere
dove l’acqua per la notte
stagna piena dei miei sogni…
L’alba s’ affaccia lentamente
alla finestra lacrimosa. Piove…
Luce non trova per entrare
e la mia sete di vita colorare
di rosa.
Sinciziale, alzati!
Sei troppo bella
con i visceri estrusi
senza pudore.
Ma adesso ascoltami,
sono il tuo riflesso
in questo specchio,
sono come tu mi vedi
coi tuoi occhi,
così fidati di me:
È ora di andare.
Flebiti profonde
della mente e del cuore,
coaguli di sogni
andati a male,
viluppi di speranze
e delusioni
con i loro colori
sono asociali
e molto spaventosi.
Rimettiti la pelle,
se proprio vuoi restare.
Un piccolo inventario dei dolori
e ricomincio a camminare,
prima con le gambette
di marionetta imbullonata,
un passo dopo l’altro,
poi con la mente impaniata
nell’assurdità dei sogni
e la necessità di andare,
piccola guerriera, io,
del lungo corridoio,
che dura quanto l’infinita lotta
fra il farcela e il restare.
Recentemente ho capito
per illuminazione
perché certi sogni,
in apparenza banali,
fossero fonti
di grande paura,
da svegliarmi sudata,
con la gola essiccata…
Io sogno case buie
con lunghi corridoi
e camere con molti letti
dove passare la notte
e ci sono i vivi come me,
perché ancora io lo sono,
e ci sono i miei morti
che stanno a riposare.
Facciamo tutti silenzio,
mi sdraio, spengo la luce
e mi desto prima di morire.
…Sono ricordi degli obitori
dove con grande dolore
ho visto per l’ultima volta
quelli che ho molto amato
e che non ho lasciato andare.
Specialmente mia madre,
quando sono scappata,
appena un attimo prima
che chiudessero la bara.
Tanto tormento
mi danno questi sogni,
così che le mie notti
non sono mai rimedio
alla ferinità dei giorni.
E quel pensiero ingenuo
che mi fa quasi esclamare:
“Che bello, si fa sera!”
al buio si tramuta
in un affanno estremo
e guardo, ad ogni ora,
il tempo che mi manca
al sorgere del sole.
La qualità efferata
di squallidi ospedali,
gli inseguimenti a morte
di perfidi assassini
e pazzi squilibrati
e io che scappo sempre,
e sempre al buio pesto,
su strade di montagna
e in fondo urla il mare,
e ancora e ancora torno
a farmi torturare…
Miei cari babbo e mamma,
sapete dirmi adesso
dov’è quel dolce sonno
che si promette ai bimbi,
cantando con dolcezza,
canzoni per cullare,
con fonti al latte e miele,
e pomi tutti d’oro,
palazzi principeschi
e splendidi domani?
L’immagine che ho creato per illustrare la mia poesia intende essere un modesto, ma sincero omaggio all’ artista Vittorio Accornero
Ho un carico di sonno
e lo porto in bilico
sopra la testa
e mi pesa e mi pesa
verso la fronte
così che pian piano
mi fa chiudere gli occhi.
Però non si può,
dormire, dicevo,
perché è fuori orario,
e così non si fa.
Mi riaccomodo il cercine
d’intrecciata pazienza,
sterpi e lembi di sogni,
poi la grande stanchezza,
in perfetto equilibrio,
per non farla cadere
e, aspettando la notte,
mi rimetto in cammino,
con il collo ben dritto,
a sbirciare la meta,
oltre un monte lontano…
Tutto quel che so
di me e di te, adesso,
sta in questi pochi
palmi stretti di letto
e nei sogni che insieme
certe notti sogniamo.
Violare il silenzio del cuore
fa quasi paura. Non sento
non penso, nulla mi trema
dentro. Non sto né male,
né bene, solo questo silenzio.
Di te così lontano nel tempo
non mi arriva più niente,
solo un senso ostinato
di freddo. Forse sei morto.
E non ho desideri, né sogni,
e non voglio partire, vedere
paesi nuovi, conoscere cose.
Mi sta bene la bolla di muco
rappreso che mi è nata intorno,
il nido per la stanchezza
di volere sempre. Tentacoli
di medusa mi spunteranno
o forse metamorficamente
sarò una tilllandsia e vivrò
d’aria cantando cantando…
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