Cichorium intybus, sdraiata nel mio azzurro,
infitta nella terra, sopravvivo. Sono forte.
Sopravvivo agli anni. Sopravvivo ai danni,
alla povertà d’amore che di sete mi fa
spasimare. Ma a che vale? Sono talmente bella,
che la mia povertà ben si cela nella veste
da due lire del mercato. Perché so di cielo,
talmente, che la gente pensa che non mi manchi
proprio niente. E mi lascia troppo sola con tre sogni
così stravecchi che oramai non me ne importa,
se non li posso realizzare. Così, nella sabbiosa estate
in riva al mare, impolverata me ne resto ad aspettare
che malgrado me , che non vorrei, finisca l’estate,
questa, come quella che se n’è già andata,
che, malgrado me, finisca la vita. Tutti sanno
che sono molto, molto amara. Ciò che mi rende amara
è la mia stessa risata. Perché mi è duro sopportare
di essere invidiata. Che cosa c’è di tanto appetitoso,
infatti, nella dura scorza di una cicoria da strada?
Bere la birra
per dimenticare…
Dimenticare la birra
per salvare i ricordi…
Non so cosa fare.
Infernale la vita
senza i tuoi sorsi
di freschissimo amore,
sete di ricordi,
di quest’ultima estate
di sabbia e risate di sole…
Ma che cosa ti ho fatto
per indurti a partire
e avvelenarmi la vita
da qui agli ultimi giorni?
Altrettanta l’urgenza
di dimenticare…
Portami svelto una birra,
che sia alta di spuma,
come la rabbia del mare,
che graffia gli scogli
in questo gelido inverno,
(a me è toccato restare.)
Portami svelto una birra,
prima che io muoia
lungo stecchito disteso
sotto questo misero tavolo
bara della mia solitudine,
portami svelto una birra,
oste della malora!
Si veste di rosa la sera
di sete leggere e di veli
intessuti con fili di sole
e canta sdraiata sui tetti
con voce di dolce sirena
il canto eterno del cielo.
Fu cerimonia grande
per quanto ci aperse
il cuore. Così da vedere
fremiti di lacrime vere
sotto i cappellini agitati
delle orpellate dame.
Fra il frusciante profumo
delle sete fiorite
il suono sommesso
di promesse scambiate
suonava nel vento
di musiche antiche,
su navate di eterno
si posava l’amore
palpitante di piume
dopo il volo nuziale…
Hai visto, tu, nostromo,
com’è passato luglio,
con tutti quei progetti
da ricondurre in porto
fendendo il mare piatto
dell’afa cittadina
nel sole color rame
ed il sargasso infido
di certe ostilità?
Qualcosa è sistemato
qualcosa ancor manca,
noi misuriamo il tempo
sulle provviste d’acqua
e sulla resistenza
a fame, caldo e sete,
poi, verso settembre,
il vento muterà…
Ho le labbra secche
di un’insaziabile sete
d’amore e di cose.
Voglio viaggiare
sentimenti nuovi,
trovare l’innocenza
dei tuoi occhi
bambini
e mari chiari.
Però mai più
devo piangere
quando sento clic
il rumore di ferro
del cancello clic
che si chiude
alle mie spalle
quando giunge
il tempo di partire.
Fa parte della vita,
ha detto un saggio,
giorno dopo giorno,
che tu cresca,
Annasofia,
e che io invecchi
sognando di tornare.
La tristezza di un giardino
abbandonato estivo,
le sue piccole denutrite
rose, la sete, la gazza,
la tortora funeraria,
il fischio del merlo,
la sedia bianca
che s’appoggia al fico,
la mia quieta insonnia,
il silenzio vizzo dell’ortensia.
Oltre la siepe, il mare,
I gabbiani, i lamenti,
gli sgraziati canti…
La fioritura del cactus
addossata alla veranda.
Quando vengo da te
col cuore assetato
e la gola riarsa
dal deserto dei giorni,
quando la voce manca
per raccontare,
quando un bicchiere
d’acqua fresca
sarebbe abbastanza
per ricominciare,
quando una mano gentile
che sfiora la fronte
mi farebbe guarire,
da oggi lo so,
tu non sei la mia fonte.
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