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Giardino d’inverno

By Poesia One Comment

bosco-nudo

Anche oggi la solitudine

m’affama d’amore

e tanto più il silenzio

scava solchi nel mio cuore

quanto più il frigido inverno

tacita e spoglia le aiuole,

non più trilli né rose odorose,

ma caduta di foglie,

di speranze, di voglie,

così che il sogno di andare

diventa mendace chimera,

resterò qui, aspettando la sera…

(Non so mai se pregare

che non cambi più niente

o che qualcosa si muova.)

Il sabba

By Poesia 13 Comments

albero del sabba

Stanotte ho sognato un sabba

in un posto che conosco

e che non dico.

Io ci sono andata,

in ciabatte,

io mortale, senza invito

per spiare.

C’erano streghe

brutte e belle

tutte avevano il cappello

nero, e che cappello!

Una parlava

e istruiva le altre.

C’erano asini e cani

i cani a mancina,

gli asini a destra,

tutti  a zampe giunte,

comandati a pregare.

Poi me ne volevo andare,

ma una turba

di giovani accoliti

mi faceva ressa

e non mi lasciava passare

e diavoli infanti

mi si avvinghiavano

alle gambe stanche

e io li staccavo

e si squartavano in pezzi,

forse per rabbia,

o per punizione.

Prova e riprova,

sono fuggita,

mi sono svegliata

e ero tutta sudata.

Ballata triste della bambola Cristina

By Poesia 8 Comments

conversa

 

Avevo una bambola,

si chiamava Cristina.

Era bionda, aggraziata,

non ancora una donna

e non più una bambina.

Lei soffriva da sempre

di fragilità d’ossa,

non per qualche mia colpa,

ma per troppa finezza

del suo latteo biscuit.

La facemmo ballare

col suo roseo vestito

e conobbe l’amore,

sempre più dilaniata

da implacabile male.

Frantumato il bacino,

corse al pronto soccorso

sul carrello tv.

Interventi alle gambe,

fasciature di scotch.

Gli ondulati capelli,

ora simili a stoppa,

le cadevano a ciocche,

a mostrare lo sclapo,

cencio verde segnato

da corone di buchi

ed il suo fidanzato,

spaventato, fuggì.

Stava solo sdraiata,

ancor dolce nel viso,

capo e corpo occultati

da finissimi lini

rubacchiati al corredo

dalla nostra pietà.

Rinunciammo a un guanciale

per lasciarla dormire.

La andavamo a trovare

nel suo strano ospedale,

un ripiano d’armadio,

dietro all’ampia specchiera.

Era troppo lo strazio

nel vederla così.

Supplicai mia sorella

che potesse morire,

con il prete, i bei canti

ed un gran funerale.

L’amavamo, ci amava,

dopotutto era viva

e il coraggio mancò.

Ogni giorno di più

lei si mise a pregare,

sublimando il dolore

in crescente virtù.

Col bel cranio rasato

(dal suo capo perfetto

fu staccato lo straccio)

con la mia sottogonna

come candido saio,

entrò un giorno in clausura,

prese i voti, fu suora.

Non sapemmo più nulla,

non potemmo parlarle,

né vederla mai più.

Molto tempo è passato,

ma ogni tanto mi chiedo:

“Chissà quanti mai anni

ha vissuto in cantina,

la mia amata, la bella,

l’inviolata Cristina”?

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