La città alitava
fiati di neve,
la sentivamo fioca
da dentro la casa.
Già sapevamo,
ma volemmo, indiscreti,
vedere.
Con bocche di persiane
gustammo
il bianco spesso del cielo
e la notte, lì,
liquefatta, discinta,
le vesti slacciate,
sorprendemmo
con gli occhi gialli
dei lampioni
e le carezze arancioni
lascive del parcheggio
deserto (il bar era chiuso.)
Poi ritornammo a letto
contenti
Dopo le otto di mattina
la forza della luce
vince le persiane
ed allaga la soglia
della portafinestra,
in diurna alluvione.
Ho fatto molto tardi,
ma non mi voglio alzare,
il letto è circondato
dalle Everglades
(la Florida che temo)
e se poserò un piede
sul nudo pavimento
tutta la mia speranza
che porto dentro il cuore
sarà mangiata a morsi
dal vecchio alligatore.
Filtra l’estate rossa
dalle persiane grigie,
piatta come un ramarro
striscia nel mio dominio,
una dimora scura,
non priva di dolore,
non priva di ristoro:
nell’ombra c’è frescura.
E poi ci sono io,
creatura non creatura,
con le mie anomalie
che a certi fan paura.
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