Come un nidiaceo storno
caduto in un camino
non trovo via d’uscita
al tempo del declino.
Io batto disperata
le ali inette e stanche
e resto dove sono.
Come un nidiaceo storno
caduto in un camino
non trovo via d’uscita
al tempo del declino.
Io batto disperata
le ali inette e stanche
e resto dove sono.
C’era la luna grande, quella notte a Livorno,
era sguaiata, discinta, spettinata
slabbrata sui contorni, come una donna sola
e molto disperata. Si affacciava alla soglia
di un cielo iperstellato e non so chi aspettasse,
ma aspettava.
Io zigzagavo in auto per un pastoso sonno,
in veglia per te, piccolo ladro del mio cuore,
mio cucciolotto da pochi mesi nato,
così malato da sembrare alato, come un angelo
che sta per ritornare là, donde fu mandato.
Così pregai la stella più vicina alla gran madre luna
che le dicesse all’orecchio di aspettare,
non aveva bisogno quanto me di quel tesoro,
garante della mia felicità e della stessa vita
di chi l’aveva accolto nella sua dimora.
Dicono che quando il tempo
passa da una stagione all’altra
chi di solito soffre il vivere a vita
senta ancora più forte il gravame
della sua lunga condanna a morte.
Io non so se sono malata, ma il vento,
quello lungo dei tre giorni di tormento,
che porta in grembo il mutamento,
mi scaglia l’anima sui cornicioni
e la sfida ad affacciarsi, poveretta,
alla profondità degli orizzonti.
Intanto fa fuggire dalla stia dorata
un’implume voglia di vittoria armata
e mi lascia vuota sola disperata.
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