di angolo retto
si è torto nel cielo
il pino di Aleppo
e graffia l’asfalto
l’unghiolo indefesso
del muschio represso.
Io passo incurvata
dal peso del pianto
chiedendomi quando
il ritorno è concesso…
di angolo retto
si è torto nel cielo
il pino di Aleppo
e graffia l’asfalto
l’unghiolo indefesso
del muschio represso.
Io passo incurvata
dal peso del pianto
chiedendomi quando
il ritorno è concesso…
E poi ti accorgi
della falsità del tuo cielo,
è solo un tendone da circo
con un piccolo buco lassù,
da dove sbuca quello vero.
E ti scoppia la rabbia
della gabbia. Povero illuso!
Trapezista professionista,
sempre lì a spenzolare,
per tradizione familiare,
a essere dolce e paziente
e non te ne importa niente,
tu che non volevi essere
buono, almeno non sempre.
E ti metti a gridare
fingendo uno strappo
muscolare. Meglio fare il leone,
ruggire, ruggire fieramente
e, quando la fame ti molesta,
sbranare il domatore con la frusta.
E all’ improvviso capisci
la giovane stella circense,
la bionda, freddissima Alice
delle meravigli più grandi,
che fa sempre ogni cosa
per dimostrare di essere brava
e compiacente. Ma soddisfa
la sua segreta voglia di morte
con le acrobazie più spietate,
senza rete, naturalmente.
Quando straparlavo
della bellezza del cielo
e sempre immaginavo
baie d’oro e lidi rosa
e bagni dell’aurora
in quell’etereo mare
che il regno degli dei
cinge e lambisce,
io ancora speravo.
La morte assai lontana,
allora, e grande l’illusione
che la bellezza riscattasse
la caducità dell’uomo.
Ora che ho più paura
venderei i miei albori
per un anno di vita solo.
Amami forte
come un uragano,
scuotimi tutta,
ch’io mi senta viva,
non lasciar scampo
alla mia fuga
e, quando suoneranno
cupe le campane,
sarà per la tua furia
che incresperà la terra
e la farà tremare verga
a verga e sarò infine tua
in quell’ora d’alleluja,
quando s’incendia il cielo,
si curva il prato al vento,
si inarca tutto il corpo
e poi pian piano muore
mentre si spegne il sole.
Bello che il cielo
entri a quest’ora
a azzurrare la stanza
e non sai se sia ombra
o colore, o luce più densa
e respiri l’immenso
da dentro, scomparendo
pareti, soffitto, pavimento
e tu dolcemente fluttuando,
pensiero fra i pensieri
della mente condivisa
con l’intero universo…
Tiglio di città, se non ci fossi tu…
Abbarbicato alla speranza
come me, a suggere una vita
che non c’è nel nero asfalto
di questa triste umanità…
Se non ci fossi tu, come farei,
senza guardare in strada
verso l’angolo del chiosco
dei giornali, a capire dall’odore,
che si insinua dolce nelle nari,
che giugno avanza, pur nel grigio
cielo di giorni sempre uguali
e che l’estate s’annuncia
nella tua chioma fitta di fiori?
Nota: Con grande simpatia dedico questa poesia all’amica Ale Marcotti, mentre vi propongo di leggere questo suo bellissimo articolo “Come una maglia prestata” in cui ho rilevato alcune affinità col mio scritto, relative alla suggestione “visiva” dell’olfatto.
Traspaiono le fate
al di là di questo cielo
non azzurro, non sereno,
ma dipinto di mistero.
Ci fu un tempo, da bambina,
in cui credevo per davvero
al dominio di un occulto
sopramondo straniero.
Io vivevo serena
e non temevo,
sicura com’ ero
del potere più grande
della fata madrina
e del trionfo finale
del bene sulle streghe
cattive e sul male.
Ah, come vorrei essere ora
quella pura creatura
e crederci ancora!
Sotto un cielo
piatto di gesso,
il soffitto, tre pesci
nuotano in tondo
e guardano “il mondo”
con occhi basedowiani.
Credono di specchiarsi
nel chiarore calmo
dell’acqua, la cui fonte
per loro è un mistero,
ingannandosi.
Dipinti sulle pareti
del vaso white bone China
i loro alter ego cinesi.
Anche l’alga del fondo
è piatta e purtroppo
non la si può brucare.
Il loro dio ha forma di mano
e ogni giorno si manifesta
e li nutre con cibo
leggero che vola
e sull’onda si posa.
Forse son già in paradiso,
o stanno nuotando
verso l’estrema illusione
di raggiungerlo infine
in un tempo lontano…
Ero bella, malata,
bianca, splendente,
quando segretamente
caddi innamorata.
di un uomo assai più grande.
Fu allor che mia sorella
prese a desiderare
un cane ardentemente.
Mia madre lo negava,
mio padre, conciliante,
fece apparire in casa
quattro pappagallini
Non fu la stessa cosa.
Li nutrivamo a turno
con semi piccolini.
Quei carcerati, alati,
di certo disperati
mai vollero cantare.
Vicino alla finestra,
al di qua della gabbia,
anch’io guardavo il cielo,
fingendomi in prigione
e forse già lo ero,
languendo di dolore
invece di volare.
Dei poveri uccellini,
ci fu chi prese un male
e non potè guarire,
chi, coraggiosamente,
prese la via del sole,
non volle più tornare.
Romeo rimase solo
e prese a gorgheggiare
per un intero giorno
e poi morì d’amore.
Io, molto lentamente,
volli dimenticare,
piano guarì il mio corpo,
e, mai del tutto, il cuore.
Ora son qui che vivo
e vivo gorgheggiando.
Così, nell’acqua di un fosso
si dissolve un papavero rosso,
un amore nato per gioco
che nel sogno ritorna per poco
e risplende di stelle e d’aurora
quando il cielo già trascolora.
Fra le ciglia frementi una donna
cela ancora il ricordo e sospira
al risveglio, per sempre, da allora,
rotolando sul volto senile,
come perle, lacrime pure.
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