Le campane lontane
di un’altra chiesa,
perché il duomo
ancora tace,
tu che dormi
ostilmente
mostrandomi la schiena,
io che sogno
la schiuma del mare
e la disperazione sale…
Le campane lontane
di un’altra chiesa,
perché il duomo
ancora tace,
tu che dormi
ostilmente
mostrandomi la schiena,
io che sogno
la schiuma del mare
e la disperazione sale…
Suona il salterio
questo piccolo vento,
sezionando in cristalli
un freddissimo cielo
in splendori d’aprile,
anomalie di silenzio
ovattando le orecchie
sempre tese a captare
il rumore normale
della vita che va.
Non ci sono gabbiani,
tace il tetto ed al suolo
solo asfalto e abbandono.
La domenica qui
pare proprio un deserto,
non importa per quanto
la campana del duomo
ha chiamato e chiamato
le sopite virtù
di una fede ormai morta,
di una Pasqua che fu.
Ma qualcosa si muove,
rattrappito dal gelo,
stracci sporchi sciorina
un risveglio a fatica,
sotto il portico scuro,
sulla panca di pietra,
sui gradini maestosi
dell’ufficio postale.
L’ungherese sta bene,
gli altri ancora non so.
Che brutta giornata
per essere i santi!
Chiama il mio duomo
con queruli attacchi
di campane. Ma io
sono sorda nel cuore.
E sto bene così. Solo
ho un po’ rimpianto
del sole. E il tempo
mi corre accanto,
forse mi precede
e io non tengo il passo
con questa maledetto
affanno…
Un mattutino
cantato dal vento
che porta da occaso
rotolii di campane
mentre io giaccio ancora
in difetto di sonno
con la testa percorsa
da un bel trillo di squilla,
il registro ad ancia
di un gran mal di capo,
solennità d’organo
del mio corpo sdraiato
e mi chiedo nel buio
come sia questo giorno,
se sia il sole a segnarlo,
di speranze tardive
infiorando le ore
di un ottobre piovoso,
o se invece la pioggia,
trattenuta nel grembo
ed alfin partorita,
darà vita ai miei mostri
e al veleno dei funghi
sotto i piedi sgualciti
dall’andare per boschi…
Solo un blando riflesso
di chiesa sfumata
in una vetrata a specchio.
Dilavamento di sabbia e di vento
con quel tanto di pioggia,
ma solo d’inverno.
Nessun rimpianto.
Eppure, al bar qui di fronte,
con un caffè in mano,
per sorbire le ore,
che son sempre più lente
quanto più l’età avanza,
c’è una donna seduta
con l’anima in mano
che guarda e riguarda
la cupola azzurra
nella lieve prigione
di chiaro cristallo
e giochi astratti dei raggi
del sole a settembre
e si domanda
se adesso sta meglio,
che più non si stona
con inni e preghiere,
pentimenti, peccati,
perdoni e campane
per sognare l’eterno, il dopo
beato. O se era più bello
temere l’inferno
che attendere, invece.
l’istante più odiato,
quell’attimo prima
dell’essere stato.
Amami forte
come un uragano,
scuotimi tutta,
ch’io mi senta viva,
non lasciar scampo
alla mia fuga
e, quando suoneranno
cupe le campane,
sarà per la tua furia
che incresperà la terra
e la farà tremare verga
a verga e sarò infine tua
in quell’ora d’alleluja,
quando s’incendia il cielo,
si curva il prato al vento,
si inarca tutto il corpo
e poi pian piano muore
mentre si spegne il sole.
Surreale silenzio dei camini,
han legato la gola alle campane,
un cielo azzurro terso offerto
al fendente d’ala dei gabbiani.
C’è chi aspetta che il morbo finisca,
che ritorni la colomba in volo
col ramoscello verde al becco
recando nuova pace all’arca.
Il silenzio mi ovatta
sempre verso le cinque
mi sigilla le nari
e mi riempie la bocca
per levarmi il respiro,
sintonia fra il sentire
ed il cielo a quest’ora.
uniforme grigiore,
punteggiato di uova
come un nido di ragno,
di corpuscoli neri,
minimali rumori:
voci in strada, gabbiani,
l’asma stanca del bus.
E le cose qui intorno
in suicidio corale
delle forme nel caos
della luce che scema
in notturna unità,
poi più niente, la mente
è la sola che resta,
solamente la mente…
Alle sei le campane.
Manca un mese lunare
al compimento dell’anno.
Molta pace qui in casa,
piccolo paradiso interrotto
solo dalle campane
che da un po’ detesto
e c’è ombra e c’è fresco.
La sanità mentale pare
a portata di mano
e la sera con il cielo
decorato stellato
spenzolato sopra i tetti
e Marte e Giove, l’universo
sembra così vicino…
Quindi sto bene e mi contento
del mio trasferimento,
non ho rimpianti
(un fatto molto strano)
se non fosse che faccio
sempre troppi conti
e concludo che mi manca
di poter fermare il tempo.
Passano stridendo alla finestra
rapide cabrate di paura o scherno.
Colpi d’ala e suonano le sette
invischiati nel tramonto rantolando
i rintocchi rincorrono i gabbiani…
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