Ance da funerale
appese lungo i rami,
arti protèsi, pròtesi
di prefiche cicale.
Addio, mia cara estate,
frinisce a morte il cuore,
seccato è un altro anno,
inganno della vita,
che prima mi innamora
e poi mi lascia sola.
Ance da funerale
appese lungo i rami,
arti protèsi, pròtesi
di prefiche cicale.
Addio, mia cara estate,
frinisce a morte il cuore,
seccato è un altro anno,
inganno della vita,
che prima mi innamora
e poi mi lascia sola.
Sai che mi ricordo ancora
di quello strano addio che non avvenne,
perché sette giorni dopo ritornasti?
Eppure ci rimasi molto male,
eravamo, amore, a Portofino,
là sul monte per guardare il mare
e quando mi parlavi così strano
promisi a me stessa di non telefonare,
né di cercarti mai e ti guardai le mani,
così per ricordarle, casomai…
tanto sottili e chiare, eppure forti e grandi,
e le carezze sparse, fragili farfalle…
Poi l’aria marzolina respirando,
un po’ primaverile, un po’ invernale,
decisi di affidarmi al mio destino,
sicura del nonsenso del lottare.
Se tornerà, mi dissi, sarà perché lo vuole.
Né baci, né promesse, né parole,
né tantomeno lacrime e sospiri,
attesi sette giorni ricamando
piccoli fiori all’ombra del rimpianto.
E ritornasti e son passati così tanti anni,
e siamo ancora e sempre insieme,
che se li conto mi spavento, ma va bene!
Per quanto la luna danzi ancora
su questa folle aurora viola,
e ali di gabbiano grandi
sorreggano i volteggi dei suoi piedi,
amaro come la più fosca delle notti
senza una stella, né un pianeta in cielo,
amore mio, già giunge il triste giorno
che tutto oriente adesso indora.
Perfido il tempo
cancella i ricordi
così io ti invento
ridisegnandoti.
Passo le dita
intinte nel vento
su fogli di vuoto
le ciglia i tuoi occhi
il naso la bocca
e quelle parole
che ancora risento…
Così distanti, noi due,
nell’amore, nei tempi.
Tu già mi lasciavi
io ti correvo incontro.
Un mare inquieto
agita schiume fossili.
Ancora vento amaro
ancora una volta
travolta dall’addio.
Agitata, fragile tamerice
schiusi per te
rosei fiori precoci
eppure polverosi.
Così diversi, noi due,
qui nella vita.
Nella sua rossa polvere
a lungo calpestata,
lame di acciaio,
pozzanghere di lacrime
lucide del riverbero
di un repentino sole…
Così diversi, noi due,
qui nella via,
incrociavamo i rami,
sordi all’altrui dire:
tu, il selvaggio caprifico,
io, la tamerice.
“E chi se l’aspettava
un’estate così strana…”
Dici banalità sul tempo
per non parlar del poi.
Sopra, c’è il cielo nero,
e sotto un capannone.
Lontano il mare urla:
“Che ne sarà di voi?”
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