Mi darebbe sollievo
uno slicing seriale
del cuore congelato
con un bisturi affilato.
E poi rimescolare….
Mi darebbe sollievo
uno slicing seriale
del cuore congelato
con un bisturi affilato.
E poi rimescolare….
Benvenuta aurora silente
che pure riverberi ovunque
come una musica ampia.
Il coro patente dei rossi
fuso coll’ocra ed il viola
tracima in dolci paludi
ove cantano i tremuli azzurri.
Adoro sentire i respiri
dell’aria che passa e cancella
le nubi, i ricordi, i castelli.
E stridono intorno i violini,
lamenti di vento dispersi
nell’etereo eterno divino.
Come un nidiaceo storno
caduto in un camino
non trovo via d’uscita
al tempo del declino.
Io batto disperata
le ali inette e stanche
e resto dove sono.
Festeggiavi ferita
dall’avarizia della vita.
Noi ce la mettevano tutta, mamma
quando eravamo bambine,
per comperarti un profumo
con le nostre monetine.
Ma non era mai “quello.”
E si capiva. La faccia delusa,
la tua voce tranquilla
come se avesse paura
di alzarsi di tono,
mormorando uniforme:
“Bello, bello!”
Molto spesso mancava
il regalo del padre.
Ma non era scusato
dal non sentirsi adeguato.
Certe volte tentava
con un paio di scarpe,
tacco alto, marca folle,
di colore marrone.
Poi finivano insieme,
mamma, babbo e le scarpe,
nel negozio a cambiarle,
perché non erano “quelle.”
Guanti, calze, profumi,
sempre troppo da poco.
Un sospiro e quel grazie,
che marciva nel cuore.
Con un colpo di genio,
ti mandò le sterlizie,
una volta, mio padre.
Molto rare, inadatte
a qualsiasi vaso
dell’arredo banale
di una casa non ricca,
ma bastò il portaombrelli.
Concedesti un sorriso,
da regina di cuori
di una favola triste,
senza fate e castelli,
senza tempi felici,
senza principi azzurri.
Muore Maggio
Melomane Malato
Mentre Marosi
Mormorano Melodie
Mendelssohniane.
Maggese Messe
Mollemente Matura.
Micio Miagola
Meridiano Monologo.
Mamma Mia!
Molta Malinconia…
Nata nel mondo della vergogna
mi bagno di sangue
in ogni mio giorno,
ne sento l’odore
ne vivo l’orrore,
non voglio sapere,
non voglio vedere…
Travolta le membra
da grande pietà
e rabbia e dolore
per come noi siamo,
noi, figli dell’uomo,
io voglio fuggire,
ma sono pesante
di lutto, di fango,
dell’immonda sozzura
di chi uccide il fratello,
ne mangia le carni
e offre l’agnello…
Per quanto la fine del giorno
sia spesso orlata di burro,
in uno stato intermedio
fra liquido e solido
e paia l’ossessione
di un cuoco francese,
io questo cielo lo amo,
come la tristesse
del lasciarsi morire
delle foglie giorno per giorno,
come la soupe aux oignons,
un sapore greve nel cuore.
Come il Cafè lateral…
Tornare? Un errore stupendo…
Non vidi l’altra sera
volare via da Vega
lo sciame delle Liridi.
La luna era nebbiosa…
Sai, quando venne l’ora
avevo chiuso a notte
le mie mille finestre
negandomi quel cielo,
col petto rattrappito.
Il cuore della casa
a chi passava fuori
apparve nero nero.
Sopra al grigio dei tetti
scivolava il tramonto
pennellate d’arancio
fra le strade deserte
del paese alle cinque.
Il dehors di quel bar
e noi due assurdamente
a mangiare il gelato
aggrappati al cucchiaio
(creme miste in un cigno
di azzurrato cristallo.)
Il respiro del Rutor
ci incurvava la schiena,
eran fredde le labbra
e l’addio vi alitava
quelle frasi tremanti
che si dicono gli amanti
giunti a fine vacanza…
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