Il sabato intenso di sigaretta
fin dal mattino più fumo,
noi a scuola lo stesso, a casa mio padre,
la mamma casalinga da sempre,
le labbra intense viola ciclamino,
marchiate (da donna, da madre,
da signora?) come volle il destino
e in mezzo, ma non sempre,
una briciola di tabacco che pende.
Serraglio e Camel mia madre fumava
e poi, poverina, ansimava
con gli occhi intensi di ghiaccio
intesi a sfidare l’altrui cedimento,
il suo, certo, no.
Mio padre, invece, non aveva la bocca.
Lui aveva baffi bizzarri. Di uno strano tono,
mimesi interessante della sua divisa
da fatica, verde bruna, di fante.
Lui fumava nazionali. Fedele, costante.
Un’intensa aura di divinità sovrastante.
Un guerriero, un cavaliere, un papà.
Niente di servile, all’orizzonte,
solo le sue verità.
Cavalcava una Vespa
colore dell’acqua marina
che fendeva volando guardinga
il ponte lungo del Centa,
col grappolo umano contento:
Il centauro, la figlia più grande
seduta, io in piedi davanti
a sperare, in attesa che un giorno
sarei stata l’amazzone in sella.
E tutto quello che doveva succedere
è già successo, adesso.
Brutta sensazione!
Ho preso quattro in ginnastica,
non so scalare la pertica,
sono brava in latino, sono brava papà.
La sorella sposa che se ne va.
Poi un girotondo sempre più teso,
dissonanze nel concerto grosso
che ci piaceva tanto, qualcosa di storto,
un violino furioso, un violoncello offensivo
e la tosse ostinata al mattino.
Non è più la stessa musica, mamma,
che la tua artrosi suonava penosa
e io a volte fingo, ma arrivo fino a Satie,
poi non mi piace più quasi niente…
Ma dove corre la tua mente, papà?
E dopo, catartici, agri a metà,
i lunghi anni di dolore e pietà.
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