Così, nell’acqua di un fosso
si dissolve un papavero rosso,
un amore nato per gioco
che nel sogno ritorna per poco
e risplende di stelle e d’aurora
quando il cielo già trascolora.
Fra le ciglia frementi una donna
cela ancora il ricordo e sospira
al risveglio, per sempre, da allora,
rotolando sul volto senile,
come perle, lacrime pure.
Io mi gioco i giorni
e perdo, perdo sempre.
Non sono un bravo baro,
non c’è mano in cui finga,
però non mi diverto
e perdo, perdo, perdo.
Mi tradisce lo sguardo,
la noia che mi prende
e quella voglia matta
di gettare le carte,
scoprire gli intenti,
mandare all’aria tutto
e ridere degli altri,
frantumarne le facce,
le facce di marmo…
Quel che mi piaceva veramente da bambina
era sdraiarmi perpendicolarmente all’erta
e rotolare svelta giù da un prato di collina
ridendo come pazze, io, la sorella e la cugina,
ebbra dell’abbraccio della velocità crescente
e del baluginar di sole in cielo e del profumo verde
dell’erba oppressa dal mio fiero corpicino.
Non tutto andava bene. C’erano i sassi grossi
e i rovi di confine, c’erano i lividi e i graffi,
le sgridate della mamma e i vestitini sporchi,
ma, in fondo al gioco, il premio sempre:
la voglia di rifarlo, salendo un po’ più in cima.
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